Istantanea Pier Vittorio Buffa

Carbonari

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Ho visto il film "Diaz" con un mio amico poliziotto, anzi ex poliziotto. Uno di quelli che più di trent'anni fa aveva rischiato la galera per chiedere una polizia senza stellette e più vicina ai cittadini, per avere il sindacato. Tra loro si chiamavano e si chiamano tuttora "carbonari" perché agivano in segreto, per non essere scoperti, per non finire davanti a un tribunale militare.

Per quasi tutto il film mi ha stretto il braccio e quando siamo usciti è rimasto in silenzio fino al parcheggio. Soltanto in macchina, lasciatosi andare sul sedile, le braccia abbandonate sulle gambe, ha detto quello che aveva dentro.

"Potrei dirti che il film non descrive la rabbia accumulata dai poliziotti, lo stress di ore e ore di servizio, la violenza di chi aveva devastato la città. Ma non voglio dire questo perché per tutto il tempo la mia testa è stata altrove. Quello che è successo a Genova nel 2001 e che questo film racconta in modo così crudo è il fallimento della mia generazione o, almeno, di quella parte della mia generazione di poliziotti che voleva una polizia dei cittadini, capace di prevenire, rispettosa dei diritti dei singoli e della legge. Oggi sembrano parole retoriche, ma allora facevano parte dei nostri programmi, erano gli obiettivi che ci eravamo dati, i nostri sogni se vuoi. E la colpa è di tutti. Anche nostra perché non abbiamo portato la lotta alle estreme conseguenze. Ma soprattutto dei nostri sindacati che sono diventati, quasi da subito, corporativi. Dei nostri capi che non hanno mai creduto in una polizia diversa. Di chi ha governato questo paese, a cui una polizia come quella che sognavamo non interessa proprio. E adesso come facciamo a dire ai ragazzi, magari dopo che hanno visto questo film, che la polizia è dalla parte dei cittadini? Vorrei chiederlo non a chi ha fatto il film, ma a tutti quelli che in questi anni hanno coperto, tollerato, mentito, depistato".

Il dibattito su twitter

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Il 19 aprile 1993, esattamente 19 anni fa, 31.225.867 italiani dissero no al finanziamento pubblico dei partiti e la legge venne cancellata. Poi arrivarono i rimborsi elettorali e lo Stato continuò a finanziare i partiti: più di di mezzo miliardo, nel solo 2008, a fronte di spese accertate appena superiori ai cento milioni...

Io, come altri 31.225.866 italiani, sono tra coloro che nel 1993 dissero sì. E sono colpevole, come loro, di aver tollerato che il nostro voto venisse di fatto ignorato. Senza indignarmi, senza scendere per strada, senza usare tutti i mezzi possibili perché ciò non accadesse.

Vogliamo tornare allo spirito di quei giorni? Vogliamo dirci e dire che non vogliamo che i partiti vivano con i soldi dello Stato?

Il governo sta pensando a nuove norme e al controllo della Corte dei Conti sui bilanci.

Ma non sarebbe più semplice che i partiti vadano a prendersi i soldi direttamente da chi li vota e li vuole? Per farci quello che ciascun partito decide insieme alla propria base? E con le certificazioni che ritiene opportune? Forse scomparirebbero gli Scilipoti e si vedrebbero più politici per le strade e nei quartieri, a parlare, cercare di capire, dare risposte...

E questi non sono sogni. Basta che lo si voglia in 31.225.867.

Un evviva per i mantovani

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A Mantova i tifosi della squadra cittadina, che ora milita in C2 ma ha una storia di grande prestigio e supporter appassionati, hanno preso una singolare iniziativa. Vogliono promuovere una class action contro i calciatori del Mantova (nella foto, a destra, Carlo Gervasoni, ex giocatore del Mantova, ritenuto uno dei perni dell’inchiesta) coinvolti nello scandalo delle scommesse.

Difficile prevedere se riusciranno nel loro intento ma immaginate cosa succederebbero se ci riuscissero e se altre tifoserie seguissero il loro esempio. Sarebbe una sana e pacifica rivolta contro i truffatori della domenica, un modo semplice e diretto per far sapere che non ci stiamo più, che non siamo disposti ad appassionarci per le gesta di uomini che tardiscono al nostra fiducia.

Ma non penso che succederà. In fondo gli scandali del calcio non  hanno mai trovato seguito nelle tifoserie. Come se non li riguardasse o, peggio, danneggiasse il giocattolo domenicale.

Quindi, per il momento, l'evviva che viene spontaneo indirizzare ai tifosi mantovani è destinato a restare isolato. Anche se mi piacerebbe davvero tanto essere smentito.


Con il porcellum non voto più

Prometto a me stesso che, per la prima volta nella mia vita, non andrò a votare se non verrà cambiata la legge elettorale, il porcellum. E' l'unica arma che mi resterà se i partiti non si decideranno a uccidere l'obbrobrio che hanno partorito nel 2005. Poca cosa davvero la mia astensione, ma se cominciassimo a prometterla in tanti potremmo, non dico mettere paura, ma far capire che non c'è più tempo per scherzare come si sta facendo in questi giorni.

Perché vien da pensare a uno scherzo quando si ascolta e si legge che forse non c'è più tempo per le riforme, che bisogna andare a votare così come siamo. O no?

P.S. - Ieri sera, 27 marzo, durante un vertice Alfano-Bersani-Casini, è stata definita una bozza di accordo per una riforma della legge elettorale. Che si cominci ad andare, concretamente, oltre il Porcellum è senz'altro un fatto positivo. Non bisogna però tornare a un sistema che restituisca ai partiti il potere di fare e disfare i governi in base ad accordi post-elettorali

Un'asta non fa museo

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Volantini delle Brigate Rosse originali messi all'asta. Anche quello con cui i terroristi comunicarono la decisione di uccidere Aldo Moro.
E' notizia che fa discutere perché quegli anni non sono ancora del tutto storia, sono con noi. Chi li ha vissuti è ancora vivo e attivo, diversi brigatisti sono in carcere, le polemiche continuano a dividere.
L'ultima discussione mi è capitata l'altro giorno, il 16 marzo, anniversario del rapimento Moro. Un mio vecchio amico, a quei tempi cronista politico di punta di un grande giornale, mi diceva che bisognava trattare, che fu sbagliato chiudere ogni dialogo. Porto con me il rammarico, mi ha detto, di non aver capito che sarebbe stato meglio fare di tutto per salvare la vita di Aldo Moro. Ma stupidamente, ha concluso, io mi schierai con quanti sostenevano la cosiddetta linea della fermezza.
Abbiamo discusso a lungo, e vivacemente, perché personalmente resto convinto che quella della non trattativa fu una scelta giusta, dolorosamente giusta. Il 9 maggio 1978, quando venne fatto ritrovare il cadavere di Aldo Moro, in via Caetani, fu l'inizio della fine delle Brigate Rosse. I più attenti osservatori lo sostennero quello stesso giorno. I fatti lo hanno poi confermato.

Il mio amico, questa mattina, letta la notizia dell'asta, mi ha chiamato.

"Un'asta non vuol dire che tutto diventa storia, roba da museo. A noi resta il dovere di continuare a discutere e, se serve, dividerci per capire meglio quello che è stato".

#dipendedanoi

"Dipende da noi" è il titolo del manifesto di Libertà e Giustizia che ha già raccolto 35 mila firme.

Potremmo definirlo il manifesto per la rinascita della politica e sembra un solido mattone su cui cominciare a costruire, ciascuno di noi per la propria parte, il futuro del nostro paese. Vi si parla di cose semplici ma determinanti: corruzione, riforma elettorale, riforma istituzionale.

Io l'ho letto poco dopo la sua presentazione e l'ho firmato. Non perché firmare un manifesto sia, di per sé un fatto decisivo, ma perché è appunto, un mattone su cui cominciare a costruire.

Ne parlo oggi per invitare a leggerlo. E se si trova anche un solo motivo per non essere d'accordo con la sua sostanza, è importante ragionarne insieme.

Il testo del manifesto | Il sito di Libertà e Giustizia


Cittadini italiani

La raccolta di firme per i due disegni di legge d'iniziativa popolare sulla cittadinanza ha avuto successo e i documenti, sottoscritti da 110000 persone, sono stati depositati in Parlamento.

Le due proposte, in estrema sintesi, prevedono che i bambini nati in Italia da genitori stranieri regolari possano essere cittadini italiani e che i lavoratori regolarmente presenti in Italia da cinque anni possano votare alle elezioni amministrative.

Una buona notizia? Si, proprio una buona notizia.

In quelle proposte, promosse da un ampio schieramento (Arci, Acli, Cgil, Charitas...), si va in modo netto verso quello ius soli che,  a mio avviso, meglio si adatta a una società moderna, multietnica e in continuo movimento.

Si può senz'altro discutere su una sua applicazione più graduale e su passaggi più condivisi. Ma, prima di tutto, va avviato un confronto franco e il più possibile diffuso sul principio.

La domanda è semplice.

Chi nasce in Italia (in condizioni da stabilire) ha diritto, prima o poi, di diventare, solo per questo fatto, cittadino italiano?

Sono di sinistra perché...

Ieri sera, durante il divertente TgZero di Radio Capital, a un ascoltatore autodefinitosi di sinistra (“Sono stato in Lotta Continua”) i conduttori Vittorio Zucconi ed Edoardo Buffoni hanno chiesto cosa c’è di diverso tra lui e uno di destra. Insomma, che cosa vuol dire oggi essere di sinistra. L’ex Lotta Continua, senza molta decisione e pensandoci un po’, ha detto che essere di sinistra vuol dire soprattutto mettere la persona al centro delle cose, della politica.

Forse è vero, ma non mi ha convinto. O almeno non mi è sembrato sufficiente. Così ho passato parte della serata a discuterne con cinque amici-amiche con cui mi sono visto in pizzeria.

Tutti di sinistra e tutti in difficoltà a spiegare con semplicità e chiarezza che cosa voglia dire, oggi, essere di sinistra. Anche io ho fatto i miei ragionamenti e i miei esempi, senza convincere molto nemmeno me stesso. Ed è per questo che sintetizzo qui i tre “essere di sinistra” che al momento di lasciare la pizzeria sono rimasti sul tavolo come esempi più concreti di altri. Tre piccoli spunti di discussione.

--   Sono di sinistra perché penso che gli ospedali non siano aziende che devono andare in pari o in utile, ma strutture al servizio dei cittadini il cui utile è nelle vite salvate e nelle vite migliorate, non nei bilanci.

--   Sono di sinistra perché quando sento un ragazzino con la pelle scura parlare italiano, magari con una inflessione dialettale, mi viene un groppo in gola. Non per la disperazione, ma per l'emozione di vedere la mia lingua diventare una lingua che va oltre le razze e la pelle.

--   Sono di sinistra perché sono convinto che il lavoro sia anche un diritto che lo Stato non può lasciare in balìa dei mercati.

La tortura c'era

Non avrei pensato di tornare a parlare di una storia vecchia di trent'anni se stamattina non vi avesse fatto esplicito riferimento, in un articolo per Repubblica, Adriano Sofri.
Nel 1982 Luca Villoresi, di Repubblica, e io, che lavoravo all'Espresso, venimmo arrestati a Venezia per aver denunciato le torture ai brigatisti che avevano rapito il generale americano James Lee Dozier. In rete c'è il mio articolo di allora e una breve sintesi della vicenda.
Andare in prigione, anche se giornalisti con alle spalle giornali come Repubblica e L'Espresso, non e' gradevole. Lacera dentro, lascia il segno, cambia qualcosa in te, per sempre.

Quello che però, personalmente, mi ferì forse più delle foto con i ferri ai polsi e del rumore del cancello che si richiude alle spalle, fu l'essere implicitamente, e anche esplicitamente, accusato di aver fatto, con quell'articolo, il gioco dei terroristi. Il clima di quei giorni lo sintetizza bene Sofri riportando un passaggio dell'intervento di Leonardo Sciascia in parlamento.
Oggi, dopo trent'anni, i protagonisti di allora, funzionari di polizia, raccontano la verita'. Confermano che la tortura programmata e' davvero esistita nel nostro paese. Che l'acqua e il sale non erano l'invenzione di giornalisti fiancheggiatori. Che i poliziotti che denunciarono i loro colleghi e che, per questo, vennero additati come traditori ed emarginati, dicevano solo la verita'.

A me resta l'amarezza di non essere riuscito, allora, a far arrivare i responsabili di fronte a un giudice.

Villoresi e io, semplici e giovani cronisti, arrivammo alla verità con un paio di telefonate alle persone giuste e qualche incontro semiclandestino. I magistrati e i capi di quei funzionari avrebbero potuto fare molto di più e meglio per scoprire cosa accadeva nei distretti di polizia e punire i responsabili. Ma non fecero nulla. Anzi, negarono con forza le evidenze.

Resta però anche un pizzico di soddisfazione che non deve restare solo mia, ed è per condividerla che ho scritto questo post. Oggi ci sono le prove che due cronisti, su questa brutta storia, raccontarono la verità. E che sia davvero acclarata con ben trent'anni di ritardo dimostra solo che della verità non bisogna avere paura. Va cercata, documentata, scritta.

E questo è il semplice ma difficile mestiere del cronista.

Il diritto alla giustizia

E' successo davvero. Un uomo, in Italia, è stato torturato in caserma, ha confessato un crimine mai commesso, ha ritrattato, nessuno gli ha creduto, si è fatto 21 anni di carcere fino a quando uno dei suoi torturatori, un maresciallo dei carabinieri, ha detto la verità.
Ora Giuseppe Gulotta è un uomo libero a cui, come ha detto il pubblico ministero, lo Stato deve restituire "libertà e dignità".
E lui, con sua moglie e il loro figlio ventunenne, è lì a ricordarci che il diritto alla giustizia non è conquistato una volta per tutte, ma bisogna difenderlo giorno dopo giorno. Dappertutto e sempre.

Francesco Viviano su Repubblica.it

Mettere in ordine

Eugenio-Occorsio-non-dimenticare-non-odiare

Ho letto il libro di Eugenio Occorsio, "Non dimenticare, non odiare". E ne voglio parlare perché è un libro lungo 35 anni, tanti quanti sono quelli trascorsi dal giorno in cui Pierluigi Concutelli uccise il padre di Eugenio, il pubblico ministero Vittorio Occorsio.

Eugenio lo conobbi allora, nell'estate del 1976, quando da giovane cronista dell'Espresso mi occupavo dell'omicidio di suo padre. A Porta Pia mi trovai davanti un ragazzo come me (20 anni lui, 24 io) annichilito dal dolore e carico di rabbia verso chi, come il mio giornale, aveva pubblicato la foto di suo padre scattata poco dopo l'assassinio.

Immagino che, anche se inconsapevolmente, le parole di questo libro abbiano cominciato a germogliare in quei giorni. Piccole, nascoste dallo stravolgimento, offuscate dal non riuscire a capire perché proprio lui, il padre buono e giusto, era stato ucciso così.

Poi le parole sono cresciute. Anno dopo anno, prendendo forma, diventando linea di condotta e filosofia di vita. Ma non riuscivano a mettersi in fila fino allo shock di quella frase sulla pena di morte dettata dal figlio Vittorio a un'agenzia di stampa dopo la scarcerazione di Concutelli.

Il risultato è un libro appassionato e imperdibile. Un po' lettera al figlio, un po' ricostruzione di anni cruciali per la nostra democrazia, un po' ritratto del padre, magistrato giusto, buono e integerrimo.

Un libro, spiega Eugenio, "nato per mettere in ordine gli avvenimenti di tre vite".

Un libro, mi permetto di aggiungere, nato per mettere in ordine concetti come giustizia e onestà intellettuale. E per non farci dimenticare quanto ciascuno di noi deve a chi ha voluto servire sino in fondo il proprio paese.

Piccoli passi

"Ma che bisogno abbiamo dei politici? I professori stanno facendo in un pugno di giorni quello che loro non hanno fatto in anni". Una, due, tre volte. Alla quarta volta che mi sono sentito fare questo discorso con l'aggiunta "Io la prossima volta non vado a votare", sono insorto.

Eh no. La battaglia da combattere adesso è proprio questa. Troppo comodo adagiarsi al freddo ed efficiente agire di un gruppo di grandi persone. Senza un vero dibattito politico. Senza un serrato confronto su quale vita vogliamo per noi e, soprattutto, per i nostri figli.

Dobbiamo rimettere la politica al suo posto. Si badi bene, la politica, non per forza i politici che ci sono adesso.

Come? A passi magari piccoli, ma decisi. Ne ho abbastanza chiari due, ma altri ne possono essere individuati.

Il primo è non permettere, noi singoli cittadini, che resti in vigore la legge elettorale chiamata Porcellum. Arrivando sino alla piazza per costringere questo Parlamento a varare una legge che riconsegni ai cittadini il diritto alla scelta dei propri rappresentanti.

Il secondo è non lasciare ai partiti, anche con una nuova legge elettorale, la scelta dei candidati al Parlamento. Imporre cioè a tutti il meccanismo delle primarie. Solo così potremo sperare di avere una nuova, giovane e determinata classe politica.

Che riprenda, insieme a tutti noi, a fare Politica

"Ma che bisogno abbiamo dei politici? I professori stanno facendo in un pugno di giorni quello che loro non hanno fatto per anni". Una, due, tre volte. Alla quarta volta che mi sono sentito fare questo discorso con l'aggiunta "Io la prossima volta non vado a votare", sono insorto.

Eh no. La battaglia da combattere adesso è proprio questa. Troppo comodo adagiarsi al freddo ed efficiente agire di un gruppo di grandi persone. Senza un vero dibattito politico. Senza un serrato confronto su quale vita vogliamo per noi e, soprattutto, per i nostri figli.

Dobbiamo rimettere la politica al suo posto. Si badi bene, la politica, non per forza i politici che ci sono adesso.

Come? A passi magari piccoli, ma decisi.

Il primo è non lasciare, noi singoli cittadini, che resti in vigore la legge elettorale chiamata Porcellum. Arrivando sino alla piazza per costringere questo Parlamento a varare una legge che riconsegni ai cittadini il diritto alla scelta dei propri rappresentanti

Il secondo è non lasciare ai partiti, anche con una nuova legge elettorale,la scelta dei candidati al Parlamento. Imporre cioè a tutti il meccanismo delle primarie. Solo così potremo sperare di avere una nuova, giovane e determinata classe politica.

Sfigati e non sfigati

Il vice ministro Miche Martone ha detto: "Chi si laurea a 28 anni è uno sfigato".

E' la parola "sfigato" che non mi piace. Anche se usata per provocare, anche se volutamente esagerata.

Crea clima da competizione, crea ansia. E divide chi pensa di arrivare alla laurea in tempi brevi da chi dovrebbe prendere atto, a sedici anni, che è meglio imparare un mestiere che studiare.

Gli intelligenti dai meno intelligenti, i bravi dai negligenti, i ricchi dai poveri. Sì anche i ricchi dai poveri. Perché c'è anche chi si laurea a 28 anni perché ha lavorato. O perché ha faticato di più di chi è cresciuto in famiglie colte e piene di libri.

Discorsi vecchi? Forse. Però la parola "sfigato" proprio non voglio sentirla.

L'inchino illecito

NAVE-COSTA-CONCORDIA
E' da venerdì notte che non riesco a togliermi dalla testa i minuti in cui la Costa Concordia punta verso il Giglio e poi vira, troppo tardi, a destra. Immagino il comandante Schettino al timone come un diportista che punta sugli scogli per poi far vedere come è bravo a evitarli di un soffio. E' lui il colpevole, l'irresponsabile, il folle.
Ma stamattina leggendo quello che avrebbe detto al magistrato ("Si, volevo fare l'inchino al comandante Palombo"), mi sono fermato un attimo.
Eh no, mi sono detto. Schettino avrà tutte le colpe che verranno provate, ma c'è qualcos'altro che non va, di ancora più grave.
Ci si accorge solo adesso di queste manovre di inchino? Nel passato le Capitanerie le hanno autorizzate? Oppure hanno chiuso un occhio? Perché? Quali occhi si sono chiusi? E la Costa? Non sapeva di quei pericolosi passaggi? Li ha mai esplicitamente vietati?
Sembra che Schettino abbia parlato di questa manovra di inchino quasi a sua giustificazione, come fosse cosa normale e lecita, solo che ha sbagliato a prendere le misure. Come dire: l'errore non è nell'inchino, ma nel come è stato compiuto.
E' l'illecito che diventa lecito per consuetudine e inettitudine.