Coronavirus, numeri da bollettini di guerra

Camion militari trasportano le bare dei morti per il coronavirus

Oggi ho immaginato cosa sarebbe successo se mio padre e mia madre fossero morti in questi giorni.

Mio padre che mi aveva detto, appena due giorni prima di morire, fai che ci siano almeno due carabinieri accanto alla mia bara (lui era colonnello), non avrebbe avuto un drappello a salutarlo e nemmeno i suoi figli, le sue nuore, i suoi nipoti e un paese che gli voleva bene.

La mia mamma se ne sarebbe andata senza i nipoti a dirle che gli sarebbero mancate le sue carezze. E anche il suo sugo e il suo pollo. E a pregarla di vegliare su di loro.

Vado indietro nel tempo e, in famiglia, ricordo una morte, quella dello zio Ernesto, della quale, mi hanno raccontato, nulla si seppe per giorni e che poi divenne una lapide al passo del Tonale, accanto a quelle di migliaia di giovani morti durante la Grande Guerra.

Se lascio i ricordi familiari e penso alla nostra memoria collettiva vado in Russia, nell’inverno del 1942. Vado alle decine di migliaia di nostri nonni, bisnonni, zii, prozii di cui nulla più si è saputo, che sono morti da soli.

Oggi, in Italia, nel 2020, sono morti da soli in più di 6000. In un pugno di giorni, in meno di un mese. Tutti infettati dal coronavirus.

Cerchiamo di dare un senso a questo numero.

Prima Guerra mondiale.

Prima battaglia dell’Isonzo (giugno-luglio 1915). Morirono da soli in 1916.

Quinta battaglia dell’Isonzo (marzo 1916). Morirono da soli in 2172.

Settima battaglia dell’Isonzo (settembre 1916). Morirono da soli in 5773.

Seconda Guerra mondiale.

Campagna di Russia (5 agosto 1941- 10 dicembre 1942, prima della disfatta). Morirono da soli in 4742.

Bombardamento di San Lorenzo (Roma, 19 luglio 1943). Morirono da soli in 3000.

Eccidio della divisione Acqui a Cefalonia, settembre 1943. Morirono da soli in non meno di 5000.

Sbarco in Normandia. Il 6 giugno 1944, sulle spiagge, morirono da soli in 4400.

Non dobbiamo avere dubbi quindi: noi stiamo vivendo la nostra guerra. E i bollettini delle 18 sono diventati un appuntamento fisso. Un po’ come fossero la nostra Radio Londra, la radio che, durante l’ultima guerra, informava puntualmente gli italiani. Mettendoli in guardia ma anche cercando, magari senza riuscirci, di rassicurarli.

Ogni giorno ci sorprendiamo quando, alle 18, accendiamo la televisione, ma, senza esserne coscienti, facciamo lo stesso gesto di chi, quasi 80 anni fa, cercava Radio Londra per sapere davvero quello che accadeva. Vorremmo ogni giorno evitarlo, e starcene sereni nella nostra casa. Ma non è davvero possibile.

E così, quasi inconsapevolmente, viviamo quello che abbiamo voluto dimenticare o che nemmeno conoscevamo perché non era la nostra storia, era la storia dei nostri padri, dei nostri nonni, dei nostri bisnonni. Perché loro, in verità, il terrore che noi viviamo adesso, l’hanno vissuto.

Il terrore della fame che, per noi, è quello della dispensa vuota.

Il terrore che qualcuno vicino a noi sparisca in un lampo.

Il terrore di non potersi ammalare.

Il terrore, alla fine, di morire da soli.

 

Questo articolo è stato pubblicato da Provincia Pavese, Mattino di Padova,. Nuova Venezia, Tribuna di Treviso, Corriere delle Alpi, Gazzetta di Mantova, Il Tirreno

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