Pier Vittorio Buffa, Non volevo morire così

di Fabio Bertini

Due isole suggestive distanti tra loro un paio di chilometri, Ventotene, la maggiore che fa comune, e la minuscola Santo Stefano che di quel comune fa parte. Insieme costituiscono una straordinaria riserva naturale. A Ventotene si vive e si può fare turismo, a Santo Stefano non è così facile perché è quasi inaccessibile. Ma in quei luoghi vi sono una storia importante e alcune tombe che raccontano e che l’autore di questo libro ha fatto parlare, facendo sì che ci raccontassero la storia e la vita di chi è stato forzato a vivere lì e lì non avrebbe voluto morire, tanto meno nel modo in cui accadde. Tra il 1914 e il 1915, su un giornale del Missouri, il “Mirror”, un poeta americano, Edgar Lee Masters, pubblicò una serie di poesie, poi raccolte nel volume “Antologia di Spoon River”. I defunti di un piccolo cimitero raccontavano le loro storie e poiché erano legati alla verità, le loro vicende terrene si intrecciavano e andavano a comporre una sola e incontrovertibile verità, l’unica possibile.

Un simile spirito è presente in questo libro, dove l’anima del prigioniero è rappresentata da epitaffi immaginati dall’autore seguendo un filo logico e spiegati con vicende reali e documentate che descrivono la storia di carcere e di confino dei due luoghi vicini e diversi. L’autore ha attinto a una vastissima documentazione, i fascicoli dei detenuti, e ha completato con un’attenta lettura della storiografia esistente, anche la minore. Base di riferimento una quarantina di nomi rimasti scritti sulle tombe, grazie anche all’interessamento dell’enologo-anarchico Luigi Veronesi, a rappresentare migliaia di casi di coloro che avrebbero detto “Non volevo morire così”.

Appare così la realtà nascosta del Novecento, attraverso due mondi abissalmente lontani, quello dei criminali veri o presunti e quello dei politici colpevoli di generosità italiana, anche se il tutto fa parte di una storia più antica. Ventotene, luogo di confino con qualche precedente nell’antichità; Santo Stefano sede di un carcere cominciato a costruire a fine Settecento con criteri allora moderni, il cosiddetto sistema panottico.

La storia del carcere è indicativa a cominciare dalla costruzione, negli anni dei fermenti seguiti alla rivoluzione francese, corrispondendo così al duplice scopo del controllo penale e politico e, difatti, la struttura servì assai presto, nel 1799, a rinchiudere patrioti come Raffaele Settembrini, Enrico Michele L’Aurora e tanti altri.

Il sistema panottico aveva due fini, fornire un buon livello di aerazione e garantire un controllo continuo e invisibile dei detenuti. L’aveva inventato, nel 1791, il filosofo utilitarista e industriale Jeremy Bentham per la sua fabbrica che impiegava detenuti. Celle disposte a semicerchio intorno alla torre dei guardiani, e con due finestre, l’una dalla parte della torre, l’altra sul retro. Con quella disposizione pochi guardiani potevano vedere tutti i detenuti contemporaneamente. Nel modello originale, si combinavano disciplina e lavoro, ma l’intento educativo spesso si perse nelle applicazioni successive.

L’ergastolo borbonico ospitò poi, dal 1848, Luigi Settembrini, figlio del precedente, Silvio Spaventa e tanti altri patrioti, alcuni dei quali futuri politici del Regno italiano, e Settembrini fornì poi una dettagliata ricostruzione di quel luogo, l’idea di una bolgia segnata dai rumori delle catene trascinate dai “dannati ai ferri”, dalle urla delle battiture, una situazione tremenda che giustificò la rivolta dell’ottobre 1860, cui seguì la fondazione della “Repubblica di Santo Stefano”, con un suo statuto e un governo in larga parte camorrista, durato tre mesi.
Con l’Unità, Santo Stefano diveniva carcere nazionale, con celle singole e non più a due come prima, ma non perdeva il carattere della durezza, attestata dal finto suicidio del regicida Gaetano Bresci, impiccato di Stato il 22 maggio 1901. Né perdeva il suo carattere con il fascismo che lo utilizzò abbondantemente per i presunti criminali e per i cosiddetti “incorreggibili”, demandati al “teratocomio”, cella da studio sanitario dell’incorreggibile dotato solo di un materasso, e anche per i politici irriducibili come luogo di segregazione cellulare e sorveglianza continua, come capitò, tra gli altri, a Sandro Pertini, Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro.

Tutto era unito da un solo obbiettivo: l’annullamento della persona umana. È quel principio che le storie narrate ricostruiscono. Molte di quelle di Santo Stefano riguardano criminali, colpevoli di delitti assai gravi, ma rivelano anche l’incapacità dello Stato di puntare alla redenzione.

Così, Pietro Colasi, uccisore nel 1900 del rivale in amore, morto di tubercolosi e di sevizie; Antonio Domenico Martino De Actis, uccisore per rapina e in carcere divenuto colto e bibliofilo, morto per le cure inadeguate; Pasquale De Pascalis, condannato per omicidio e altre cose, irrequieto ma domato dalla cella di punizione, analogamente morto per cure inadeguate; Salvatore Jacovitti, assassino per folle ubriachezza di una bambina dodicenne, anch’egli morto per cure inadeguate; Giuseppe Tomezzoli, accusato – probabilmente a ragione – di sterminio di una famiglia a colpi di roncola nel 1926, morto per qualcosa definito vagamente “autointossicazione”; l’albanese Man Taria, condannato per diserzione da una guerra italiana che non sentiva sua e morto per malattia non curata adeguatamente, quando l’8 settembre 1943 stava per liberarlo; Michele Forte, ladro incallito anche da militare e omicida di un commilitone, morto tubercolotico e dimenticato tra malattia e morte come Salvatore Lai; il greco Giorgio Capuzzo, condannato per aver aiutato gli inglesi nel 1943, ammalato del morbo di Pott, la cosiddetta “malattia di Leopardi”, non trasportabile verso la liberazione dopo l’8 settembre 1943 e dunque morto in carcere da uomo libero. E infine, Antonio Malapaga, la cui morte per deperimento non curato, nel 1953, determinò la protesta dei compagni di pena e avviò una svolta.

Poi i detenuti innocenti, ma non per questo immuni dalla violenza carceraria: Giovanni Addessi, accusato innocente per vendetta dall’amante e dal marito di lei di complicità in omicidio, rimasto in carcere nonostante la tardiva confessione di lei e suicida per disperazione; Rocco Mediati, di Platì, terra di ndrangheta e di violenza, accusato di un omicidio deciso dalla setta ma non commesso da lui, l’unico morto in carcere cui la famiglia porta annualmente un fiore. Bartolomeo Castellana, che non aveva ucciso nessuno ed era solo un piccolo rapinatore, ma era stato destinato come superagitato al teratocomio di Santo Stefano e impiccatosi in un modo che lasciava molti sospetti. Il sospetto aleggia su altre morti, come quello di un detenuto politico, il comunista Rocco Pugliese, come denunciò poi l’illustre compagno di prigionia Sandro Pertini. Accusato dell’uccisione non provata di uno squadrista fascista nel 1925, in una fase di rigurgiti della violenza politica, in carcere non aveva mai desistito dalla sua fede e dal denunciare l’ingiustizia, imbattendosi in un famigerata e violento capoguardia, responsabile della sua morte, e denunciato invano all’opinione pubblica internazionale.

Il carcere panottico era fatto perché i detenuti fossero osservati, ma anche loro osservavano il carcere e sapevano tutto. Il 10 settembre 1943, gli americani sbarcavano a Santo Stefano e liberavano i detenuti politici. Gli altri ebbero l’occasione di una rivincita, guidati da personaggi famosi, come Sante Pollastro, bandito nello stile moderno dei marsigliesi e anarchico, celebrato amico di Costante Girardengo, capo e organizzatore della rivolta, poi infortunato a una gamba e costretto a lasciare la guida delle operazioni a un altro famoso, l’anarchico individualista Giuseppe Mariani, protagonista dell’attentato al Teatro Diana ripudiato dallo stesso Errico Malatesta. Rivolta durata pochi giorni e stroncata dagli inglesi, contro la cosiddetta “tomba dei vivi” che almeno servì al trasferimento in altri carceri, prima che Mariani ottenesse la grazia nel 1946 e Pollastri nel 1959.

L’ergastolo comportava la morte a Santo Stefano. La rivolta esprimeva una volontà di andarsene che qualcuno provò ad attuare evadendo. Così, nel 1956, il saltimbanco Giovanni Scalfi, giunto a nuoto a Ventotene e lì ripreso, adombrando di essere stato usato per una manovra contro il direttore Perucatti. Così i banditi Giovanni Di Lucca, ex brigatista nero della banda Casaroli, e Antonio Toma, scomparsi nel 1960 e forse affogati in mare, utili anch’essi, però, a mettere in difficoltà il direttore Perucatti. Così ancora, insieme, nel 1960, il parricida Emilio Piermartini e Benito Lucidi, ex Decima Mas e omicida, famoso come re delle evasioni, già fuggito da Regina Coeli, ripresi e pronti a giustificare la fuga come una specie di solidarietà verso il direttore Perucatti, allontanato e sostituito.

Chi era allora il direttore Eugenio Perucatti? È questo l’elemento nodale della parte su Santo Stefano perché si tratta del “riformatore”, arrivato a Santo Stefano nel 1952 con moglie e dieci figli. Avvocato, recava con sé la cultura del cattolico coerente – qualità rara – e insieme la convinta adesione alla Costituzione che mostrò facendo leggere alla prima riunione il terzo comma dell’articolo 27, titolo I, Dei diritti civili: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Da lì Perucatti mosse promuovendo infrastrutture civili, aprendo le porte delle celle per rompere l’isolamento, intervenendo su casi singoli, a partire dalla lettura di ciascun fascicolo, preparando una foresteria per le famiglie in visita, reclamando il trasporto in strutture sanitarie idonee degli ammalati, creando un campo sportivo e istituendo un luogo simbolico, la “Piazza della Redenzione”, lasciando liberi i detenuti di dipingere le pareti della cella a loro piacere, invitando celebri personaggi a visitare il penitenziario.
In un libro del 1955, Perucatti esponeva la sua teoria esplicita fino dal titolo: “Perché la pena dell’ergastolo deve essere attenuata: documenti, polemiche, esperienze, nuovi orizzonti della esecuzione penale”. Difese le sue posizioni anche in dibattiti pubblici e fu considerato, insieme all’avvocato Gaetano Ambrosini, il più fervido fautore della “Crociata umanitaria per l’abolizione dell’ergastolo”. In quei dibattiti del 1956 enunciava il principio: «Si faccia in modo che sia lo stesso condannato a potere, volendo, modificare la propria pena nel tempo stesso che egli modifica e redime se stesso».

Portò la voce di 250 suoi ergastolani al primo Congresso per l’abolizione dell’ergastolo del marzo 1958, spiegando che non si chiedeva il colpo di spugna ma la redenzione morale, sollecitando la trasformazione dell’ergastolo “da pena incondizionatamente perpetua a pena solo condizionatamente perpetua”. Non esitava a sostenere l’innocenza di suoi reclusi, come Salvatore Gallo, condannato all’ergastolo per l’omicidio del fratello che sette anni dopo riapparve vivo e vegeto, o a dimostrare la buona condotta di un altro, Benigno Pilia, condannato a morte e commutato, cercando senza successo di fargli avere la grazia.

La fuga di Di Lucca e Toma fu utile a chi contrastava l’azione di Perucatti, ma non poteva fermare l’azione che aveva avviato da Santo Stefano, l’altro volto del complesso penitenziario di quelle isole, rispetto a Ventotene, il luogo delegato al confino.

Ventotene trattava una materia più indefinita e più labile, in larga parte dipendente dal giudizio soggettivo del potere politico contro crimini commessi assai spesso a beneficio dell’umanità e dei diritti naturali. Svolgeva una persecuzione e finiva per esaltare una virtù.

Appare utile ancora oggi a stabilire il metro di misura dell’impegno politico. Non a caso il confino di Ventotene unisce il Risorgimento, la ribellione all’autoritarismo crispino e l’antifascismo, le fasi in cui la militanza politica si è mostrata nel suo volto più nobile, quello del sacrificio personale della libertà e delle sostanze. Duemila confinati all’incirca dal 1930 al 1943 sono un numero rispettabile. Sono in continuità con gli inviati al domicilio coatto da Crispi, con quelli inviati da Rudinì e Pelloux al tempo dei moti del pane nel 1898, tra i quali Errico Malatesta, con gli internamenti nel periodo della grande guerra, fino alla trasformazione del domicilio coatto in confino di polizia dal 1926 nel quadro delle leggi fascistissime e del passaggio alla dittatura.

La rassegna che ci offre Buffa offre un primo importante riscontro dell’antifascismo italiano perché i confinati morti a Ventotene della sua “Spoon River” sono riconducibili a comunisti, anarchici, socialisti, liberal socialisti di Giustizia e libertà, e le loro vicende si intrecciano con elementi dello stesso tipo e di socialisti. Si esaurisce in questi riferimenti l’antifascismo che ha pagato coerenza e fede politica a Ventotene.

Il confino, stabilito discrezionalmente da una commissione provinciale (prefetto, questore, procuratore, Carabinieri, Milizia), trovava nel direttore della Colonia di Ventotene l’alter ego in negativo di Perucatti, il commissario Marcello Guida, altro singolare termometro della storia italiana.

Provvisto di uno straordinario potere, esercitato attraverso i “cenni”, note di qualifica da cui dipendeva la vita dei confinati, zelante servitore del fascismo, spesso sordo alla pietà, dopo la liberazione, Marcello Guida non pagò il suo bieco potere ma ebbe anzi, nell’Italia repubblicana, onori e la possibilità di esercitare ancora un ruolo politico determinante, tanto che, nel 1969, dopo la strage di piazza Fontana, da questore di Milano, gestì la faccenda Pinelli, la pista anarchica, i primi passi della “madre di tutte le cospirazioni di stato” che aprirono gli anni di piombo. Nell’eclatante gesto di Sandro Pertini, ex confinato di Ventotene e presidente della repubblica, di non stringergli la mano si riflesse tutto il buon senso dei veri democratici italiani che spesso la Repubblica eludeva.

Confino pieno di regole: il libretto rosso, trovarsi un lavoro (impresa in gran parte impossibile), la censura sulla posta, il divieto di assembramento, i limiti alla passeggiata; per i più pericolosi politicamente, il pedinamento continuo, l’assegnazione temporanea al carcere di Santo Stefano ecc.

I confinati controbattevano come potevano: la capacità di organizzare la comunicazione con l’esterno, particolarmente i comunisti, l’esercizio clandestino della discussione politica e delle lezioni, di base per i più sprovveduti e di alta qualità per i già preparati, l’organizzazione anche politica delle mense, l’ascolto di fortuna della radio, soprattutto la messa in opera di un’importante biblioteca che molto doveva a Mario Maovaz, grande figura di repubblicano dapprima anti-austriaco e irredentista, poi aderente a Giustizia e Libertà, confinato per questo e per aiuto all’espatrio di compagni, attivo anche dopo la liberazione dal confino nell’agosto 1943, fondatore del Partito d’Azione, torturato dalla banda del commissario Collotti a Trieste, fucilato dai tedeschi con altri ostaggi a Opicina.

E ancora le cose speciali, come il pollaio di Altiero Spinelli, dietro la bottega da orologiaio, la bottega d’arte di Pietro Secchia, l’uso politico dei caffè. E poi le lotte simboliche, come quella contro l’obbligo del saluto romano, come alle Tremiti, a Ponza, a Ustica e altrove.

Una grande tensione politica che ebbe il suo culmine dal luglio 1943, quando, caduto Mussolini, alla prima sorpresa, seguì l’azione politica in nome della libertà, dettando regole al tremolante e obbediente commissario Guida, poi via via l’allontanamento dal confino che però penalizzò gli anarchici, ultimi ad andarsene ma non verso la libertà quanto verso il campo di concentramento.
Anche Ventotene ha la sua “Spoon River”. Il comunista Marino Semerari, sedicenne aderente alla scissione del 1921, promotore di una celebrazione del primo maggio con bandierone rosso a Casalecchio di Reno nel 1925, da cui la condizione di vigilato speciale, poi con banale motivazione, il confino su impulso di un altro glorioso funzionario per tutte le stagioni, Saverio Polito, allora questore di Bologna, agente dell’OVRA e poi questore di Roma nel dopoguerra e quindi la morte per un’appendicite affrontata tardivamente.

L’antifascista Ferdinando Perencin, operaio arrestato per materiali di propaganda sovversiva, inviato al confino dopo aver rifiutato l’abiura, per possesso di libri di Mazzini, Tolstoj e Kropotkin, impedito ad avere un supplemento vitto e un cappotto, impegnato in una battaglia contro la burocrazia fascista e dunque impedito a combattere il tumore fino al rilascio in fin di vita.

L’anarco-comunista Nini Bidoli, espatriato in Francia nel 1928, anch’egli, una volta rientrato, refrattario all’abiura, di nuovo in Francia, poi estradato per attività anarchica in Portogallo e, di lì, in Italia, al confino, a Ponza e quindi a Ventotene, bravo aiuto-bibliotecario e sempre attivo politicamente e, per questo, internato per disposizione del commissario Guida, e poi tornato a Trieste, nella Resistenza, arrestato, deportato a Dachau e scomparso per sempre.

Mario Brambilla, comunista, reo di propaganda sovversiva e confinato a Ventotene, subito attivo politicamente e per questo spostato alle Tremiti, inflessibile nel rifiutare il saluto romano, poi riportato a Ventotene, insidiato dalla colicisti e morto per mancanza di cure adeguate.

Ernesto Bicutri, militante repubblicano in Spagna, tubercolotico al momento dell’arrivo a Ventotene, ma non curato adeguatamente dapprima per scelta del Guida e del medico, poi per la lentezza della burocrazia, suscitando l’energica protesta di Pertini.

L’anarchico Giovanni Domaschi, già attivo contro la guerra, poi arrestato per l’opposizione alla squadre fasciste, tra i capi antifascisti di Verona e, al confino, con Giustizia e Libertà, ma trattenuto come anarchico dopo il 25 luglio, autore di un nobile appello agli italiani per la libertà, prima di poter tornare a Verona e riprendere la battaglia che doveva condurlo a morire a Dachau.

L’anarchico Luigi Grossutti, stipettaio abile nel creare nascondigli nei mobili, emigrato e politicamente attivo in Argentina, poi estradato in Italia dal regime militare golpista, nel 1932, confinato a Ponza, poi a Ventotene, ucciso da un’otite setticemica.

Il comunista Giuseppe Piancastelli, anch’egli iscritto dalla scissione di Livorno, emigrato in Francia e tornato nel 1925, condannato da uno dei processoni ai comunisti nel 1928, poi amnistiato e vigilato, arrestato di nuovo al momento di espatriare in Francia nel 1936 per la guerra di Spagna e assegnato al confino, giungendo tubercolotico ma partecipando attivamente all’attività clandestina, fino al sopravvento della malattia che, non adeguatamente curata, suscita la fiera protesta di Umberto Terracini e altri compagni che fa muovere Guida, tardivamente purtroppo rispetto alla morte.

Pertini, Terracini, nomi intorno a cui coagulava la resistenza e produceva politica, atti e testimonianza, come i protagonisti della la mensa di “Giustizia e Libertà”, amministrata da Nello Traquandi, che, intorno a un grosso dentice appena pescato, si inaugurava con Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, lo stesso Damaschi, una mensa “Europa”, la vera casa del Manifesto di Ventotene, il documento elaborato nell’agosto del 1941 e fatto circolare clandestinamente. La piccola isola si era fatta centro di elaborazione.

Come un tempo era stata costruita la Nazione, era ora di costruire un’Europa federata delle Nazioni con una sua unità politica, architrave della pace mondiale. Il Manifesto riconosceva l’importanza del liberalismo per lo sviluppo delle società moderne e il ruolo progressivo un tempo esercitato dal principio di indipendenza della nazione, ma ne indicava la deriva verso il nazionalismo imperialista e l’idea di nazione dominante e totalitaria.

Sottolineava il nesso tra la paura dei ceti privilegiati verso la crescita politica dei ceti subalterni e il totalitarismo autoritario, militarista e privatore delle libertà, dogmatico e oscurantista. Il Manifesto indicava il pericolo: nel dopoguerra, quegli stessi ceti dirigenti, svincolatisi per tempo dall’alleanza con il nazifascismo, si sarebbero camuffati e riciclati, infiltrati tra le forze popolari trovando i loro capisaldi negli stati nazionali. Così avrebbero rimesso in moto il meccanismo perverso che conduce al militarismo e alla guerra asservendo le masse. Da lì la necessità di riorganizzazione federale dell’Europa, trasferendole la sovranità. La prefazione di Emma Bonino al libro di Pier Vittorio Buffa inquadra con felice sintesi l’intreccio tra tutti gli elementi del libro, riconducibili alla possibilità ancora inespressa di realizzare in un’Europa costruita su quei principi una vera repubblica della dignità umana.