Non volevo morire così.
È l’urlo disperato che, sapendolo ascoltare, esce da ogni roccia e da ogni anfratto delle isole di Ventotene e Santo Stefano. Oggi mete turistiche molto frequentate. Ieri luoghi di atroci sofferenze, “sempre albergo di pene e di dolori”.
Non volevano morire così, prima di vedere il proprio sacrificio contribuire alla nascita di un’Italia democratica e repubblicana, gli antifascisti confinati a Ventotene e poi uccisi dalle malattie o dai nazifascisti prima del 1946.
Non volevano morire così nemmeno le centinaia di assassini e di rapinatori, di uomini innocenti e di detenuti politici, morti nel carcere più terribile dell’Italia monarchica e repubblicana, soprannominato la ‘tomba dei vivi’. Non volevano morire nell’isola di Santo Stefano dimenticati da tutti, chiusi in una cassa sottile e sepolti sotto un palmo di terra nel piccolo cimitero dove le croci sarebbero state corrose dal tempo e dall’incuria.
Mondi lontani e opposti, quelli dei patrioti e degli assassini, anche se talvolta, negli anni bui del fascismo, le linee di confine si confondevano e molti antifascisti diventavano, per sentenza, delinquenti comuni.
Mondi lontani e opposti di due isole distanti solo un braccio di mare, ma legate da un comune passato di segregazione e sofferenze.
Ventotene, la più grande, meno di mille abitanti, è l’isola del Tirreno, non lontana da Ischia, usata come luogo di domicilio coatto sin dai tempi dei Borboni. E ancora prima, molto prima, dagli antichi romani: Augusto vi esiliò la figlia Giulia, Nerone la moglie Ottavia. Il fascismo, alla fine degli anni Trenta, vi concentrò quelli che considerava i più pericolosi sovversivi, i più acerrimi nemici del regime. Ottenne però l’effetto opposto. Invece di piegare e ridurre al silenzio socialisti e comunisti, anarchici e giellisti, fece di Ventotene una sorta di incubatore della futura Repubblica italiana e della futura Europa unita. Nei cameroni del confino vissero più di venti membri dell’Assemblea che avrebbe poi scritto la Costituzione italiana. E nell’angusto spazio entro il quale gli ottocento confinati dovevano mangiare, studiare, camminare, dormire, nacque Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto. Lo elaborarono e lo scrissero, in piena Seconda guerra mondiale, quando gli europei si uccidevano tra di loro, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni. È noto in tutto il mondo come il Manifesto di Ventotene, è riconosciuto come l’atto fondativo dell’Unione europea e ha fatto diventare la piccola isola pontina la culla dell’Europa unita.
Santo Stefano, meno di ventotto ettari di terra circondati dal mare, a un miglio da Ventotene, è diventata isola ergastolo alla fine del Settecento quando il re di Napoli Ferdinando di Borbone incaricò l’architetto Francesco Carpi di costruirvi un carcere. Carpi progetta una struttura per i tempi molto avanzata, un grande edificio panottico nel quale una sola guardia può sorvegliare tutti i reclusi. I re di Napoli vi rinchiudono, oltre agli assassini e ai camorristi, oppositori politici come Luigi Settembrini e Silvio Spaventa. Altrettanto faranno i fascisti: nelle celle del carcere panottico finiranno, tra gli altri, il futuro presidente della Repubblica italiana Sandro Pertini e il futuro presidente dell’Assemblea costituente Umberto Terracini.
Pertini e Terracini, condannati dal tribunale speciale istituito dai fascisti nel 1926, vivono accanto a ladri e assassini, vedono da vicino la morte e il dolore. Una volta terminata la detenzione non vengono però lasciati liberi, sono pericolosi ‘sovversivi’ e come tali vengono mandati al confino. E restano a Ventotene fino alla caduta del fascismo, all’estate del 1943.
La vicenda di questi due uomini può essere considerata il collante che fa delle storie di Ventotene e Santo Stefano un’unica grande storia. Una grande storia che va raccontata, preservata, difesa. È una storia di dolore. Ma anche di speranza. La speranza che prendano forma i progetti per fare delle due isole un grande campus dove si continui a parlare di Europa, di pace, di giusta pena. La speranza che le stanze e i luoghi che hanno chiuso e segregato diventino stanze e luoghi di libertà.
Questo libro, una sorta di Spoon River di chi su queste due isole ha sofferto e ne è morto, vuole essere una piccola guida per sapere quel che è accaduto su quegli scogli, per conoscere in modo diverso due isole bellissime. E vuole essere, soprattutto, un simbolico cippo per non dimenticare.
Non dimenticare chi, quando la libertà non esisteva, ha messo in gioco tutto quello che aveva, cioè la propria stessa persona, per conquistare quella libertà e lasciarcela come il massimo dei doni possibili.
Non dimenticare che l’ergastolo è una pena che non porta alla redenzione e alla vita, ma solo alla disperazione.
Pier Vittorio Buffa
fotografie © Pier Vittorio Buffa