Degli anni del confino di Ventotene e delle persone che li hanno vissuti una come me pensava di conoscere tutto: del Manifesto per l’Europa, di Altiero Spinelli, di Ada ed Ernesto Rossi… Pensava di avere letto così tanto da sapere bene come erano andate le cose.
E invece, proprio per una come me, la ricostruzione che di quegli anni viene fatta in Non volevo morire così è sorprendente ed emozionante.
Questo è un bel libro, scritto in modo gradevole, insieme drammatico e godibile. Due cose che sembrano in contraddizione ma che qui non lo sono.
Sono pagine che ricostruiscono la vita dei confinati, fotografano dettagli che gli anni rischiavano di cancellare per sempre. E diventano, quindi, un importante riconoscimento per tutti coloro che in nome dei propri ideali hanno perso la libertà e sono rimasti segregati nelle prigioni fasciste o nelle isole di confino. Non solo i personaggi più noti, quelli che hanno poi attraversato, con i loro nomi e le loro azioni, la storia della Repubblica. Oltre a Spinelli e agli altri federalisti penso a Pertini, Terracini, Scoccimarro… Uomini che della prigionia e del confino hanno scritto e raccontato nutrendo generazioni di libertari e di antifascisti. Ma questo libro è un riconoscimento soprattutto per coloro che non hanno potuto raccontare, che sono morti, come scrive Pier Vittorio Buffa nelle prime pagine, “prima di vedere il proprio sacrificio contribuire alla nascita di un’Italia democratica e repubblicana”. Incontriamo grandi eroi sconosciuti che senza questo lavoro avrebbero rischiato di uscire dalla nostra memoria, dalla storia di questo paese.
Incontriamo Giovanni Bidoli: una storia, la sua, che mi ha molto colpita. Una tenace lotta per difendere le proprie idee che finisce in un campo di concentramento e in una marcia estenuante in cui Bidoli scompare.
Incontriamo lo Stipettaio, l’anarchico che ha confezionato il mobiletto con il quale, si dice, vennero portati fuori dall’isola il Manifesto e altri importanti documenti clandestini. E che prepara un vassoio di legno sul quale Ernesto Rossi dipingerà bellissime scene di vita dei confinati di Ventotene (nella foto con la didascalia figurata che dà un nome ai personaggi raffigurati sul vassoio, Ndr)
E poi altri. L’uomo ammalato difeso da Pertini che impone al direttore del confino di farlo portare subito in ospedale. L’anarchico Domaschi che aveva diviso la cella con Ernesto Rossi…
Ecco, è proprio leggendo queste storie che ti rendi conto che ti sbagliavi quando ritenevi di sapere tutto e che nulla più potevi aggiungere alle tue conoscenze su quel pezzo di storia d’Italia. Persino di Altiero Spinelli ho scoperto un dettaglio della sua vita che ignoravo. A Ventotene aveva imparato ad allevare galline: dietro la sua piccola bottega da orologiaio aveva organizzato un efficiente pollaio. Attraverso particolari come questi si entra davvero nella vita del confino. Una vita difficile come tutte le vite segregate, una vita di stenti scandita dall’arrivo del piroscafo Santa Lucia che portava viveri, posta e, spesso, nuovi compagni.
L’isola di Ventotene la conosco bene. Anzi, pensavo di conoscerla bene. Ci sono andata molte volte, l’ho girata tutta, a terra e per mare. Ma non avevo mai sentito davvero l’odore del confino. I suoi silenzi, i suoi rumori attutiti, le sue urla, le sue disperazioni.
Le storie umane raccontate in queste pagine consentono di avere un quadro più preciso di quella comunità grande e variegata, attraversata da profondi dissidi e grandi amori, che è stata capace di mantenersi comunque vitale, sopravvivere alla dittatura, farsi trovare pronta quando c’è stato bisogno di prendere in mano le armi e costruire un’Italia libera. Una comunità della quale Bidoli, lo Stipettaio e gli altri hanno fatto parte a pieno titolo.
Non volevo morire così, come si capisce immediatamente dal titolo e dalla copertina, parla del confino di Ventotene e dell’ergastolo di Santo Stefano. Parla delle due isole insieme (“mondi lontani e opposti di due isole distanti solo un braccio di mare, ma legate da un comune passato di segregazione e sofferenze”) con l’intento dichiarato di spiegare le radicali differenze dei loro destini, fugare qualunque dubbio o confusione sul loro ruolo nella storia più recente, cogliere quello che le ha legate e le lega. Anche in questo caso attraverso gli strumenti che di questo lavoro sono i pilastri: una ricerca approfondita, risultato di passione e di sforzo intenso, le storie che emergono con la loro struggente quotidianità e le loro enormi sofferenze, il ruolo del cronista che racconta tutto questo con discrezione e pudore, senza mai mettersi in mezzo.
Attraverso la cronaca storica balzano fuori dalle pagine del libro due personaggi opposti dei quali è bene non perdere memoria.
Il primo è Marcello Guida, il commissario di polizia che fu l’ultimo direttore del confino, l’uomo che scriveva i ‘cenni’ (si scoprirà leggendo il libro di cosa si tratta) che segnavano il destino di centinaia di persone, l’uomo che all’indomani del 25 luglio fece sparire la foto di Mussolini dal muro dell’ufficio e il distintivo fascista dal bavero. Guida ha fatto carriera anche nella Repubblica: era il questore di Milano il giorno dell’attentato di piazza Fontana e, come è ricordato in queste pagine, disse subito che, sostanzialmente, l’anarchico Pinelli si era buttato dalla finestra perché i suoi alibi erano crollati. Pertini, quando era presidente della Camera dei deputati e si trovava a Milano, si rifiutò di riceverlo.
L’altro è, appunto, il suo opposto. È l’uomo al quale Buffa dedica un paragrafo intitolato “Il riformatore”: Eugenio Perucatti, direttore dell’ergastolo di Santo Stefano dal 1952 al 1960. Il suo approccio con l’ergastolo è diverso da tutti i suoi predecessori. Innovativo, moderno, rivoluzionario, di eccezionale attualità. Come prima cosa si fa portare i fascicoli dei detenuti e li studia per capire se dentro quelle mura siano rinchiusi degli innocenti. E nella sua prima riunione da direttore fa leggere l’articolo 27 della Costituzione, approvata da pochi anni, dove si stabilisce che le pene “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Quello che Perucatti dice sull’ergastolo lo ripetiamo oggi, con le stesse parole, noi radicali. Lo ha sostenuto con tutto l’impegno di cui era capace Marco Pannella ed è quello che, né più né meno, Rita Bernardini dice ogni volta che visita un carcere. Parole e concetti quindi, quelli usati da Perucatti negli anni Cinquanta, di stringente attualità, dichiarazioni e modi di comportarsi che a un orecchio radicale risuonano molto contemporanei.
La ‘rivoluzione’ tentata da Perucatti e le storie dei detenuti morti sull’isola di Santo Stefano confermano, se mai ce ne fosse bisogno, come la battaglia contro l’ergastolo sia una battaglia che va combattuta fino all’ultimo, fino all’abolizione di una pena che è, di per sé, inumana e anticostituzionale. A questa battaglia Non volevo morire così, con le sue drammatiche storie di ‘sepolti vivi’, dà un importante contributo.
Emma Bonino