Dunque ci sarebbero le "botte", le "botte" subite in una caserma dei carabinieri all'origine della morte di Stefano Cucchi.
Lo dicono in maniera chiara e netta due militari dell'Arma ascoltati dai difensori della famiglia del ragazzo morto all'ospedale Pertini il 28 ottobre 2009. Certo, adesso si dovranno attendere le decisioni dei magistrati, ma quello che dicono i due carabinieri, un uomo e una donna, è quello che tutti noi abbiamo pensato vedendo il corpo martoriato di Cucchi.
Perché negare? Perché coprire? Perché non ammettere subito quello che affermano oggi i due testimoni della difesa, cioè che i carabinieri che avevano in consegna Cucchi "non si erano regolati", avevano esagerato con le "botte"?
I responsabili avrebbero subito pagato per quello che è uno dei reati più pericolosi per la salute di una democrazia, l'abuso del potere affidato dallo Stato a un proprio cittadino per far del male, picchiare, torturare.
Stefano Cucchi e i suoi familiari avrebbero avuto giustizia.
Il rapporto di fiducia tra i cittadini e le forze dell'ordine sarebbe, paradossalmente, cresciuto.
E invece, siamo qua, dopo sei anni ad aspettare la verità che, se arriverà, arriverà dopo lunghi slalom tra menzogne e reticenze andati avanti solo grazie alla tenacia della sorella di Stefano, dei suoi familiari, dei suoi amici vecchi e nuovi.
Questo, in una comunità con anticorpi efficienti, non dovrebbe proprio accadere. Mai.