“Fu un’azione combinata. Cucchi prima iniziò a perdere l’equilibrio per il calcio di D’Alessandro poi ci fu la violenta spinta di Di Bernardo che gli fede perdere l’equilibrio provocandone una violenta caduta sul bacino. Anche la successiva botta alla testa fu violenta, ricordo di avere sentito il rumore. Spinsi Di Bernardo ma D’Alessandro colpì con un calcio in faccia Cucchi mentre questi era sdraiato a terra…”. (Testimonianza del carabiniere Francesco Tedesco , presente al pestaggio che ha poi portato alla morte di Stefano Cucchi).
Dunque fatti del genere accadono davvero nelle caserme delle forze dell’ordine. Non sono frutto dell’invenzione di parenti straziati dal dolore o delle indagini di magistrati “perversi”. Per chi avesse ancora dei dubbi le parole del testimone diretto li spazzano via: Cucchi è stato picchiato a morte mentre era custodito da uomini in divisa. L’epilogo più drammatico di quello che in una democrazia sana non dovrebbe mai accadere, nemmeno nelle sue forme più lievi: chiunque deve potersi fidare ciecamente di chi ha giurato di servire il proprio paese rispettandone le leggi e per difendere i suoi cittadini. Deve poterlo seguire con serenità, non temere di entrare in caserma, sapere che, se è innocente, ne uscirà indenne e, se è colpevole, verrà trattato secondo le leggi.
E quando questo non succede perché un poliziotto o un carabiniere vengono meno ai propri doveri, non dovrebbe essere necessaria la straordinaria tenacia di una sorella perché la verità venga alla luce. Dovrebbero concorrere tutti, dai ministri ai comandanti, ai singoli colleghi dei sospettati, a tutte le forze politiche, ai sindacati di polizia a far sì che la verità emerga con forza e chiarezza.
E invece non è quasi mai così. Si cerca di nascondere, occultare, omettere, sviare, minimizzare. Basti pensare a quello che è successo dopo le violenze commesse durante il G8 di Genova. O al tempo che c’è voluto, trent’anni, perché un funzionario di polizia raccontasse della tortura programmata utilizzata in una particolare fase della lotta al terrorismo. Per non parlare del caso Aldrovandi e degli agghiaccianti applausi ai poliziotti condannati tributati dai membri di un sindacato di polizia.
Eppure la “lezione Cucchi” insegna cose molto semplici.
Di fronte alla denuncia di violenze durante un fermo o un arresto si dovrebbe procedere con la massima fermezza per capire davvero quello che è successo, individuare gli eventuali responsabili, isolarli, mandarli a processo.
Se questo non accade si diffonde, all’interno delle forze di polizia, un clima di supposta impunità che non può che favorire il ripetersi di episodi di violenza. E fuori, nel paese, una sfiducia diffusa che non corrisponde al reale valore di chi ogni giorno rischia la vita per garantire la nostra sicurezza.
Il tutto con una parola d’ordine che ciascuno di noi, a partire da chi ci governa, dovrebbe fare propria: “Mai più morti in caserma”.