C’è una bambina di due anni che si chiama Celeste ed è malata. Malata grave, di atrofia muscolare. Una malattia che non si cura, la cui diagnosi è la morte.
Questa bambina, racconta oggi Repubblica in un articolo di Sandro De Riccardis, è migliorata grazie a iniezioni di cellule staminali prelevate ai suoi parenti, alla sua mamma. Adesso, però, non migliora più, respira con maggior fatica: le cure sono state bloccate dall’Agenzia del farmaco dopo un’ispezione dei carabinieri dei Nas.
La sopravvivenza di Celeste, come quella di altri bambini che seguono terapie simili, è ora affidata a una decisione del giudice di Venezia al quale ha fatto ricorso Gianpaolo Carrer, il papà di Celeste.
Non serve entrare molto di più nel merito della vicenda, che ha il suo fondamento giuridico in un decreto legge del 2006, per dire una cosa molto semplice.
Se esistono cure che, senza mettere a repentaglio la vita di altre persone, consentono di lenire sofferenze o, addirittura, di salvare o anche solo prolungare la vita, nessuno dovrebbe avere il potere di interromperle.
Ha detto il papà di Celeste a Repubblica: “E’ come essere nel deserto, avere l’acqua a portata di mano e trovarsi di fronte qualcuno che ti impedisce di bere”.