E’ in libreria La casa dell’uva fragola, il mio secondo romanzo. E’ il punto di arrivo di un lungo percorso emozionante, a tratti faticoso, non sempre dritto ma che ho affrontato con grande leggerezza. Grazie anche, ma è meglio dire, soprattutto, a chi in questi due anni e mezzo mi ha accompagnato passo dopo passo.
Oggi, giorno di uscita, ho davvero voglia di condividerlo questo “percorso”, raccontarlo. Eccolo qui.
La Casa dell’uva fragola è una storia, o meglio, delle storie nate all’alba di un giorno dell’ottobre del 2020. Nate dalla suggestione di un titolo, nutrite da decenni di amore per una casa e un piccolo paese lontani centinaia di chilometri da dove sono nato e ho sempre vissuto, cioè da Roma.
La Casa dell’uva fragola è in Valcuvia, tra Varese e il lago Maggiore, a Castello Cabiaglio, un borgo che una volta si chiamava Cabiaglio e basta. E ha un grande portone verde che ho varcato per la prima volta quando ero ancora un neonato e ho continuato a varcare ogni estate, anno dopo anno, nessuno escluso. Potrebbe essere definita, quella di Cabiaglio, la seconda casa della mia famiglia, la mia seconda casa. Ma io non ho mai capito bene quale fosse la prima e quale la seconda. Anche perché di prime case, chiamiamole così, ne ho cambiate tante. Di seconde no, c’è sempre stata quella della Valcuvia. E poi, da ragazzino, avevo un serio problema di identità. Quando arrivavo a Cabiaglio dopo un inverno di scuola romana gli amici mi prendevano in giro perché parlavo come un romano. Quando tornavo a scuola, a Roma, mi prendevano in giro dicendomi che sembravo uno di Milano.
Ma non me ne preoccupavo più di tanto. Tornare a Cabiaglio mi piaceva sempre di più. Per i motivi per cui a un adolescente piace andare dove si è più liberi. Ma anche per un qualcos’altro di cui mi sono reso conto anni dopo: in quella casa si raccontavano storie. Del nonno, della bisnonna, dello zio e della zia. Di quella lunga gita in mezzo ai boschi, di quando c’era la guerra, del gelo invernale, dell’acqua del pozzo. Tutto questo è entrato dentro di me lentamente ma costantemente, si è depositato senza che nemmeno me ne rendessi conto.
Poi arrivarono i registri. Alla fine del secolo scorso don Mario, il parroco, mi mise a disposizione i libroni della parrocchia. Li sfogliai con avidità e trovai le tracce, precise e documentate, di due, tre, quattro, cinque, sei generazioni prima della mia.
Mentre mi appuntavo nomi e cognomi, date di nascita, di matrimoni, di morti, le donne e gli uomini che sino a quel momento erano stati solo protagonisti delle storie raccontate in famiglia diventavano personaggi reali. Entravano in relazione tra loro: si sposavano un certo giorno, moriva un loro figlio, una loro figlia, venivano seppelliti nel cimitero nuovo o in quello vecchio. Le storie tramandate a mo’ di fiaba, e probabilmente modificatesi generazione dopo generazione, erano adesso oggettive, tracciabili, documentate.
Scrissi tutto su un quadernetto nero, costruii, con un apposito software, un piccolo albero genealogico, lo stampai, lo regalai ai parenti più anziani di me ancora in vita. E continuai a fare quello che avevo sempre fatto, andare ogni anno a Cabiaglio dove anche i miei figli, Alessandra ed Emanuele, erano cresciuti come me. Mezzi romani e mezzi valcuviani. Liberi di andare in giro per il paese ancora piccolissimi, di scoprirne i luoghi più segreti, di attraversare le valli circostanti prima in bicicletta, poi in motorino, infine in automobile.
Dopo la morte dell’ultima zia mi arrivarono a casa scatoloni pieni di carte e fotografie nei quali mi immersi una, due, tre volte. Vi si documentavano la crescita delle querce fatte piantare da uno dei miei bisnonni, l’importante ruolo pubblico avuto da un avo, il destino militare di un prozio, le vicende catastali della casa. Tutto era lì, tenuto insieme da fettucce colorate un po’ logore o custodito in preziose cartelle di cuoio come non se ne fanno più. Ogni tanto ne parlavo con gli amici d’infanzia che incontro ogni anno a Cabiaglio. E anche con i miei amici di Roma: bastava la domanda più banale che si possa fare, cosa fate la prossima estate, per raccontare di quel paesino che nessun romano conosce e di cui qualcuno fa anche fatica a pronunciare il nome.
La scintilla è scoccata una sera di agosto del 2020, una delle ultime sere in cui si poteva star fuori senza sentire troppo freddo. Mia moglie Paola mi dice, come mi chiedesse di portarle un bicchier d’acqua, perché non scrivo un libro intitolato la Casa dell’uva fragola. Le rispondo, con sufficienza, va bene, ma accompagno la risposta con un gesto della mano molto chiaro: ma cosa dici? l’uva fragola? Ma sì, ribatte, guarda com’è verde e grande, è la cosa più bella di questa casa. Passiamo ad altro e non ci penso più. O almeno credo di non pensarci più. Perché invece, probabilmente senza nemmeno accorgermene, scansiono tutto quello che ho accumulato dentro di me, come lo ripassassi per prepararmi a un esame: uomini, donne, fatti storici, dolori, gioie. Tutto quello che mi era stato tramandato dai racconti di famiglia e tutto quello che avevo raccolto in parrocchia e grazie a qualche libro di storia. Cerco anche di scoprire un segreto mai svelato, un segreto di fronte al quale i racconti di nonni e zie si fermavano, scivolavano via con consumata abilità.
Il 24 ottobre, è un sabato, accendo il computer e scrivo le parole che hanno attraversato indenni i due anni di lavoro al testo della Casa dell’uva fragola: «Questa storia comincia nel maggio del 1918, ma non ha un inizio preciso e neppure una vera fine. Potrebbe andare indietro nel tempo per secoli o spingersi avanti fino a quando è stata raccontata». Giorno dopo giorno le storie di Ernesta, Francesca ed Ezechiella si intrecciano tra loro e con la vita del paese. Guerre e grandi accadimenti storici arrivano nella Casa talvolta dirompenti talvolta attutiti. La verità tramandata sfuma nelle mie mani e lascia spazio a epiloghi e sviluppi inaspettati, a nuovi personaggi, a snodi non previsti. La ricostruzione fedele e puntigliosa diventa romanzo.
Messo il punto finale ho guardato gli scatoloni e i libri accumulatisi intorno a me e li ho ringraziati, come fossero essere umani.
Un Grande Uomo trasmette grandi emozioni.