Il senso di un lavoro del genere è presto detto.
Conoscere, sapere, rimettere a posto le cose della nostra storia aiuta a costruire un memoria condivisa del nostro passato. E, quindi, aiuta a costruire meglio il nostro futuro.
Oggi i 750 soldati fucilati dopo i processi, più i mille e mille uccisi per decimazione dei reparti o sommariamente, in trincea, non sono nemmeno considerati vittime di guerra. Semplicemente, non esistono: negli elenchi dei caduti, negli albi d'oro, sui monumenti.
Eppure venivano uccisi soprattutto per dare l'esempio, perché la loro morte servisse di incitamento ai compagni per andare avanti, a combattere e morire. E quindi anche loro, i fucilati, hanno contribuito, con il loro sacrificio, alla "vittoria finale". Sono anche loro, a pieno titolo, vittime di quella terribile guerra.
Riconoscerlo ufficialmente, vuol dire, per uno Stato e per una comunità, mettere un importante mattone alla costruzione comune.
E questo, anche se si parla di vicende di un secolo fa, non è cosa da poco. Perché quella dei fucilati è, come tante altre, una questione che ancora divide, che è ancora irrisolta nella coscienza nazionale. Non è ancora, appunto, una memoria condivisa. E dopo un secolo, come è già successo in altri paesi, è proprio tempo che lo diventi.
(l'immagine del documento è stato concessa dall'Archivio centrale dello Stato, ne è vietata la riproduzione)