Quel giorno, il giorno della strage di sant’Anna di Stazzema, Enrico Pieri, morto dopo una breve malattia il 10 dicembre scorso, aveva dieci anni e restò solo, senza più madre, padre, sorelle. Per decenni non ha più parlato di quei minuti, nemmeno con suo figlio. “A lui”, spiegava, “non ho mai raccontato tutto direttamente, a quattrocchi. Ma sa”. Se ne andò a lavorare in Svizzera e quando tornò voleva continuare a tenere tutto per sé. Gli sembrava, probabilmente, un dolore troppo grande per poter essere condiviso, troppo profondo e terribile per poter essere davvero compreso. Poi è successo qualcosa. Forse in un pugno di minuti, come quel mattino di agosto del 1944, o forse in giorni, mesi. Lui lo spiegava così: “Ho capito che di memoria c’è bisogno e ho cominciato a ricordare, testimoniare sono andato anche in Germania, anche lì c’è molto bisogno di memoria. Tanto”. Così Enrico Pieri è diventato il simbolo della strage di Sant’Anna di Stazzema, del giorno in cui le SS uccisero più di cinquecento uomini indifesi, vecchi, donne, bambini. Finché ha potuto saliva ogni giorno su a Sant’Anna e raccontava degli spari e del sangue, della piana dei fagioli e della paura. Con semplicità ma senza abbassare gli occhi come volesse capire che effetto facevano le sue parole a chi lo ascoltava: studenti italiani e tedeschi, coppie in vacanza, gruppi in pellegrinaggio.
Ogni 12 agosto, durante la cerimonia, al Sacrario, parlava. Accanto a lui ci potevano esser ministri o capi di Stato, non cambiava nulla, diceva sempre le stesse, limpide cose. Vogliamo la giustizia che ci è stata negata per decenni, e vogliamo la pace: da una vicenda dolorosa come la nostra non può che nascere un bisogno disperato di pace. Poi scendeva e invitava a mangiare salsicce e bere un bicchiere di vino, come volesse scacciare tutto con un po’ di allegria.
Questo era Enrico Pieri. Io l’ho conosciuto quasi dieci anni fa per scrivere la sua storia in un libro, in Io ho visto. Il 25 aprile 2019 l’ho incontrato per l’ultima volta. Eravamo a Sant’Anna e nel tendone, sul palco, c’era Pamela Villoresi che interpretava il suo racconto del 12 agosto: “Sono tutti con gli occhi chiusi, con il sangue addosso…”. Un anno dopo, durante il lockdown, gli feci un’intervista sulla pandemia che si concluse così: “Una lezione però dovremmo averla imparata, anche se so che per l’umanità è difficile se non impossibile. Quanti soldi abbiamo speso per le armi? Quanto denaro abbiamo tolto alla sanità per comprare aerei e navi da guerra? Se avessimo avuto un sistema sanitario più efficiente forse non avremmo avuto tutti questi morti, ne sono certo. Ma so anche che su questi temi la memoria dell’uomo è corta, molto corta”. Quando, dopo qualche mese, ci siamo fatti gli auguri per il nuovo anno mi disse che finché ne avesse avuto le forze sarebbe sempre andato lassù, a Sant’Anna.
Ciascuno di noi dovrebbe dire grazie a un uomo così. Grazie Enrico.