Questa foto l’ho scattata nel 2004 in Ucraina, nel Donbass settentrionale, a pochi chilometri dal confine con la Russia. È un uomo che sta cercando di trattenere le lacrime: ha appena raccontato quello che fece nel gennaio del 1943, a dodici anni. Aveva aiutato a seppellire in una fossa comune “tanti italiani, forse cento”. E aveva indicato un punto laggiù, “ecco, là “, disse. Poi aveva cominciato a strizzare gli occhi e non aveva più parlato.
Gli italiani erano gli invasori della sua terra, erano i soldati dell’armata mandata da Mussolini a conquistare la Russia: non tornarono a casa quasi in centomila uccisi dai proiettili, dal freddo, dalla prigionia. Vinti, come aveva scritto Victor Hugo dei francesi di Napoleone anche loro ricacciati indietro dai russi, dalla loro stessa conquista, “vaincu par sa conquête”.
Io ero lì, in un caldo luglio, però, non in un gelido inverno, per un viaggio che avrei voluto fare con mio padre, sopravvissuto alla ritirata. Ma non avevo fatto in tempo, così ero andato da solo. Volevo vedere da vicino, dare forma e dimensione a luoghi di cui conoscevo solo il nome, cercare qualcuno che ricordasse quell’inverno maledetto.
Il giorno prima che scattassi questa foto una donna aveva descritto la paura dei soldati italiani che tornavano indietro, la loro fame: ne parlava come una mamma che parla dei suoi figli, non come la vittima di un’invasione. Proprio come la donna ucraina che, a un soldato russo fatto prigioniero durante questa guerra del 2022, ha dato una tazza di te e anche il cellulare per rassicurare la famiglia.
Dopo aver fotografato l’uomo che aveva sepolto gli italiani andai lungo la strada dove, in Ucraina, si era trovato a combattere mio padre, tra Harmashivka e Bondarivka, nell’oblast di Lugansk, uno dei due oblast del Donbass. In fondo a quella strada, sulla destra, un carro armato T 34 fa la guardia a un cimitero dove sono sepolti 524 soldati sovietici: russi, georgiani e ucraini, tanti ucraini
Ecco dopo ottant’anni, sulla stessa terra, stanno accadendo le stesse cose, tra gli stessi alberi e in mezzo agli stessi sassi. Ancora un’invasione, ancora guerra, fuoco, morte. E un bambino che in questi giorni ha visto la propria casa distrutta da un missile o soldati morti ai lati della strada piangerà quando qualcuno, come ho fatto io con l’uomo della foto, gli chiederà di raccontare.
Perché la guerra, sembra assurdo doverlo ripetere, è dolore puro che si imprime nella carne di chi la vive in profondità e per sempre. Proprio per sempre.