Giuseppina Tarabbia detta nonna Pinna, 91 anni, è morta alle 14 di martedì 24 marzo all’ospedale Giovanni Bosco di Torino. Susanna è sua figlia e vive a Roma.
“Mamma stai tranquilla, sto partendo, arrivo, tu dormi, pensami già lì vicino a te, che ti stringo le mani”. Ecco, sono state queste le ultime parole che ho detto alla mia mamma dalla casa di Roma. Gliele ho dette attraverso il telefono della dottoressa che la stava curando e non so se mi ha sentito, forse sì perché ho avvertito un leggero modificarsi del suo respiro faticoso. O forse desidero solo immaginarlo, immaginare che abbia portato con sé il calore della mia mano appoggiata alla sua. Poi, alla donna che immagino nascosta dietro le protezioni e di cui non conosco il nome, ho chiesto se la mamma poteva essere sedata. Il suo sì, pronunciato come in un soffio, mi ha dato un attimo di sollievo seguito immediatamente da una fitta che dal petto è scesa allo stomaco. Erano le 5 del mattino di lunedì 23 marzo e la mamma se ne stava andando senza poter vedere per l’ultima volta la mia faccia, senza poter sentire davvero la mia voce. E io non potevo leggere l’addio nei suoi occhi azzurri.
Il 27 febbraio sarei dovuta andare a passare qualche giorno da lei. Ero appena tornata da un viaggio e l’allarme per il virus saliva ogni giorno di più. Lei mi disse di non avere fretta, di prendermi il tempo che mi serviva, di aspettare ad andare su. E io, come ho fatto tante volte nella mia vita, anzi, quasi sempre, ho fatto come voleva lei, sono rimasta a Roma. Quel “va bene mamma, aspettiamo qualche giorno”, mi rimbomba nella testa. Avrei dovuto fare come avevo deciso, prendere il treno per Torino, non avrei dovuto darle retta, non questa volta. Perché poi è successo quello che sappiamo e che stiamo vivendo e quel treno non l’ho più preso. La mamma comunque stava bene. Come può star bene una donna di 91 anni certo. E che, per di più, aveva subìto, negli ultimi anni due importanti interventi chirurgici. Ma la sua lucidità era eccezionale e la saturazione di ossigeno del suo sangue più che discreta.
Tanto che nei primi giorni delle misure anti-contagio era anche uscita per piccole passeggiate. Ne era tornata cupa. Lei, durante la guerra, giovanissima, aveva fatto la staffetta per un gruppo di partigiani, portava messaggi e ricordava con precisione quei giorni. Mi disse che le code che aveva visto davanti ai supermercati l’avevano riportata ad allora. “Vedi Susanna, adesso però mi sembra quasi peggio. Allora dovevamo guardarci dalle pattuglie e dalle spie, sapevamo dov’erano, conoscevamo i trucchi per evitarle. Qui invece abbiamo un nemico che non si vede e che può essere dappertutto”.
È dal ritorno dall’ultima di quelle brevi passeggiate che è iniziato un lento ma percepibile, almeno per me, cambiamento di umore. Come se quello che stava vedendo accadere intorno a sé le fosse apparso come un peso per lei insopportabile. E poi, ma questo lei non me lo ha mai detto, si stava impadronendo di lei, una donna forte e di straordinaria energia, un terrore sconosciuto. Quello di star male, di aver bisogno di me e sapere che io non potevo essere da lei in un pugno d’ore.
Di questi cambiamenti me ne sono potuta accorgere perché ci sentivamo con costanza e precisione tutte sabaude. Una telefonata la mattina verso le nove e poi un’ora di videochiamata con FaceTime dalle cinque alle sei del pomeriggio. Ogni giorno. Lei faceva tutto da sola con il suo Ipad e stavamo lì, come se abitassimo insieme, a raccontarci tutto. Nessun problema fisico ma l’occhio meno vivace, la chiacchierata più pacata, come stanca.
“Ieri”, mi dice il 15 marzo, “ho camminato un po’ sul terrazzo e faceva un gran caldo, forse ho sudato un po’ e mi è venuta un po’ di tosse. Ma stai tranquilla, non ti agitare, non è niente”.
Il giorno dopo sento che il suo respiro è diventato corto, affannato. Chiamo il suo medico di base ma mi dice che non può andare a visitarla a casa. Allora cerco un pronto soccorso privato e venerdì una dottoressa va da lei con le protezioni regolamentari. Un po’ mi tranquillizza, dice che non c’è emergenza, che è una bronchite. “È un po’ agitata”, dice, “e un po’ giù, un po’ depressa”. La saturazione è scesa, siamo a 78 e le prescrive un antibiotico importante.
Poi le ore e i giorni, nella mia testa, si accavallano. Rispettiamo i nostri appuntamenti. Ma lei è come avesse poca voglia di parlare. Sono io che riempio il tempo, che mi invento storie, che racconto del nipotino che, con mio figlio, la chiama tutti i giorni.
Della videochiamata delle cinque di domenica sera ho ancora stampato dentro di me il suo sguardo assente, il suo sorriso che non c’era più, nemmeno leggero. “Mamma, ci siamo già informati, posso venire, arrivo”. Mi guarda attraverso l’Ipad, non riesco a cogliere fino in fondo la sua espressione. Ma il gesto del suo indice, anche se rallentato dalla connessione, lo vedo bene: no, no, no. Allora le dico le ultime parole che sono sicura che abbia davvero ascoltato. Le dico guardando quel vetro che mi trasmette la sua immagine. “Mamma c’è qualcosa che mi vuoi dire?”. Il suo indice mi fa ancora no, no.
Alle 4 mi chiama la badante, la saturazione è scesa a 40. Chiamo il 118, arrivano, il telefono della badante è collegato, sento gli infermieri che parlano tra loro. “Ha la polmonite”, dicono. E sento la voce della mia mamma. “Lasciatemi tranquilla, lasciatemi respirare”.
Dopo un’ora è in ospedale, dopo due ore la dottoressa mi fa, diciamo, parlare con lei. Poi la sedazione, perché lei, mi aveva detto tante volte che quando sarebbe arrivato il momento, non voleva essere tormentata.
Il giorno dopo, alle cinque, la chiamata che sapevo sarebbe arrivata. È un medico che si qualifica con nome e cognome, ha un tono garbato e affettuoso che non dimenticherò mai. “La sua mamma non va bene, ha avuto una crisi respiratoria, non si è ripresa, è mancata”,
Ecco, la mia mamma se n’é andata così. Tra uomini e donne vestiti come astronauti che si sono presi cura di lei. Ma sola. Davvero sola. E anche le sue ceneri verranno sepolte sole, senza nessuno di noi a salutarle.
Questo articolo è stato pubblicato dalla Stampa