Sono uscito dal rigido percorso casa-supermercato-farmacia dopo quindici giorni. Prima me lo ero imposto per precauzione, poi è stato imposto a tutti noi. Sono uscito per le strade di Roma per fare il mio mestiere, per scrivere, dopo averlo concordato, questo articolo.
Primo passo: compilare l’autocertificazione con il numero della carta d’identità e della tessera professionale e la spiegazione del motivo di lavoro che mi portava ad allontanarmi dal perimetro consentito.
Poi mascherina ben sistemata, macchina fotografica nella borsa, accensione del motore e via.
Vado lento per strade che conosco a memoria, che ho percorso migliaia di volte. So i tempi dei semafori e conosco gli incroci che normalmente è meglio evitare.
Ma questa domenica mattina, 15 marzo 2020, mi sento nella mia Roma come un inviato in territorio straniero. Palazzi e Mura aureliane sono gli stessi di sempre, certo. Anche i semafori sono gli stessi, con i verdi, i rossi e i gialli che ai alternano con il ritmo di sempre.
Ma vado sempre più lentamente per potermi guardare intorno e cercare di capire perché non mi sento un cittadino di questa città.
È per gli odori. L’aria sa di primavera come neanche nelle domeniche ecologiche.
È per le automobili che non ci sono. Ai semafori sono solo e ogni volta devo resistere alla tentazione di spingere l’acceleratore e passare con il rosso.
È per le persone che camminano a piedi. Le studio come se mi trovassi in uno zoo, con i vetri dell’auto a fare da gabbia all’incontrario. E conto. Tanti con la mascherina ben calzata, tanti con la mascherina calata sul collo, tanti senza mascherina. Più della metà, o forse il 70 per cento, ha un cane al guinzaglio. Gli altri corrono vestiti da jogging. Solo pochi camminano da soli e con abiti da città.
I posti di guardia alle ambasciate, con il piccolo gazebo e due soldati armati di mitra, si impongono. Attirano lo sguardo, diventano elementi preponderanti di questa città che sto scoprendo minuto dopo minuto.
E poi le macchine dei carabinieri. E i furgoni della polizia di Roma Capitale. Si muovono piano e tu ti senti osservato. La mano va da sola al taschino per controllare che l’autocertificazione sia al suo posto.
Il Muro Torto è una strada-budello amata e odiata da tutti i romani. Non c’è romano che non via abbia passato un po’ del suo tempo in fila, pigiato in una colonna quasi immobile di auto. Oggi non è il Muro Torto. È una scorrevole arteria urbana che ti porta in un attimo davanti a una delle porte più belle della città, Porta del Popolo. Qui il semaforo è fatto soprattutto per i pedoni che escono ed entrano dalla piazza. Normalmente, domeniche e giorni feriali, sono un piccolo fiume. Nella Roma di oggi non ci sono fiumi, solo ruscelli secchi. Anche davanti a Porta del Popolo si potrebbe passare con il rosso.
Il viaggio nella Roma del 15 marzo 2020 ha due piccoli obiettivi: Castel Sant’Angelo e il Quirinale.
Quando, in dieci minuti, arrivo all’inizio di via della Conciliazione mi sento già meno inviato e più cittadino di questa città. Come mi fossi abituato agli odori, alle automobili che non ci sono e al tipo di persone che si muove a piedi. Mi accorgo come la tensione che sentivo dentro di me si stia allentando, mi sento anch’io parte di quello che sto vedendo, con la mascherina che appanna gli occhiali e l’autocertificazione nel taschino. Non vedo nessuno, veramente nessuno e posteggio dove viene, all’inizio del piazzale di Castel Sant’Angelo. Ma arriva una macchina dei carabinieri. Porto la mano al taschino ma mi chiedono solo di non posteggiare lì.
Ecco, sono davanti a Castel Sant’Angelo. Con la borsa e la macchina fotografica, un po’ turista fortunato e un po’ giornalista. Fotografo il nulla. Uno scatto è per Ponte Sant’Angelo. Non so quante volte, negli anni, ho aspettato alle ore più diverse che nessuno lo attraversasse per poterlo riprendere in tutta la sua bellezza. Oggi mi sorprendo a fare l’opposto. Dopo aver fatto un paio di scatti al ponte vuoto aspetto alcuni minuti che un essere umano lo renda vivo. Arriva un uomo che cammina proprio al centro. Click. Click.
Poi guardo giù, lungo il Tevere, e vedo che c’è un po’ di animazione. In cento metri ci sono dieci-dodici persone, tutte ad abbondante distanza regolamentare. E dall’alto si vede bene come i percorsi di ciascuno deviano per evitare di passare troppo vicino a chi viene in senso contrario.
Al Quirinale arrivo passando da piazza Venezia. Dove c’era l’albero di Natale ora c’è il cantiere della metro e la piazza perde molto del suo fascino anche così vuota. Guardo palazzo Venezia e mi torna in mente la scena di un film famoso. Lì sotto, all’indomani dello sbarco di Anzio, nel gennaio del 1944, arriva una camionetta di americani. Piazza vuota come adesso e come da allora, forse, non era stata mai più.
A guardia del Quirinale ci sono due lancieri di Montebello e due auto dei carabinieri. Le bandiere attestano che il presidente della Repubblica è a palazzo. Passano due turiste straniere, le uniche che incontro durante il mio breve viaggio. Sono in bicicletta e si fermano e, mi viene da dire anche se non ho potuto vederle, restano a bocca aperta davanti alla silenziosa maestosità della piazza.
Una delle due macchine dei carabinieri viene messa in moto, si allontana dal portone e viene verso di me che sono a scattare foto dalla parte opposta della piazza. Al carabiniere spiego che sono un giornalista. Qualche altro scatto e poi via.
Il breve viaggio è finito. Una manciata di chilometri percorsi in un’ora e mezza che hanno fatto diventare anche me cittadino di questa Roma del 15 marzo 2020. Con un senso di smarrimento duplicato. l’ammirazione per una capitale che sta facendo la capitale. E la convinzione che i sacrifici che ci vengono chiesti sono ben poca cosa rispetto a quello che sta accadendo e potrebbe accadere.
Questo articolo è stato pubblicato dal Messaggero Veneto e dal Tirreno