di Loriano Machiavelli e Francesco Guccini
©2007 Arnoldo Mondadori Editore S.P.A. Milano
Questo piccolo sito è stato costruito con il solo fine di raccogliere e pubblicare documentazione sulle vicende del XXVI battaglione carabinieri durante la campagna di Russia. Nessuno immaginava, però, che potesse servire anche come fonte di un’opera letteraria.
Invece è successo con il bel romanzo di Loriano Machiavelli e Francesco Guccini. Il loro ultimo lavoro, Tango e gli altri, ha come protagonista un maresciallo dei carabinieri, Benedetto Santovito che, prima di diventare partigiano, combatte la sua guerra in Russia nei ranghi del XXVI battaglione. I due scrittori si sono basati, per ricostruire i mesi in Russia del loro maresciallo, soprattutto sui documenti raccolti in questo sito.
E’ per questo che abbiamo chiesto a loro e alla casa editrice il permesso di pubblicare il secondo capitolo del romanzo quello, appunto, dedicato ai mesi in Russia del maresciallo Santovito.
Grazie a Loriano Machiavelli e Francesco Guccini. E grazie a Patrizia Pastore che, per Tango, ha condotto le ricerche.
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II
1942, ottobre, sul Don
DA CORTICELLA ALL’INFERNO
Il maresciallo dei carabinieri Santovito Benedetto, aggregato al XXVI battaglione Carabinieri regi, doveva lasciare immediatamente il comando della caserma e presentarsi improrogabilmente entro il giorno 12 agosto 1942, presso la scuola allievi ufficiali di complemento sita in Bologna, località Corticella.
Il XXVI battaglione, aggregato alla Divisione Vicenza, avrebbe raggiunto l’ARMIR sul fronte russo. L’ordine non arrivò inaspettato a Santovito. Appena si era sparsa la notizia della costituzione di un battaglione di carabinieri da spedire sul fronte russo, Santovito fu certo che sarebbe stato fra i partenti. Qualcuno non lo amava, giù, al comando. Non lo amava il capitano, il classico ufficiale di carriera, infilato dentro una divisa impeccabile cucitagli addosso da un sarto che conosceva il mestiere. Magro e nervoso, capelli scuri e lisci appiccicati al cranio e due baffetti sottili, piccolo dì statura, Santovito non lo aveva mai visto tranquillo un istante.
A lui doveva il trasferimento in montagna e a lui doveva, ne era sicuro, l’ultimo ordine di trasferimento.
Il 10 di agosto del 1942, Benedetto Santovito raccolse le ultime cose e lasciò la caserma nel paese di montagna fra l’Emilia e la Toscana. In treno aveva diritto alla seconda classe e fece il viaggio da solo perché in seconda si spendeva di più che in terza classe e i montanari non ne avevano da spendere.
Il caldo aumentava con l’avvicinarsi alla città. Dal 1939 era salito su quel treno almeno una volta al mese per raggiungere il comando di Legione e conosceva ormai il paesaggio che gli mutava di continuo davanti, ma che sempre lo stupiva per i colori, per il fiume, per le atmosfere…
Arrivò alla stazione di Bologna poco dopo mezzogiorno e il caldo che trovò gli fece rimpiangere, per la prima volta, il paese. O meglio, il fresco che aveva lasciato al paese. L’atmosfera della città era immobile, opprimente. Pochissimi i passanti che, potendo, se ne stavano chiusi in casa fino al calar del sole. Un po’ di fresco usciva solo dagli androni bui di vecchie case dai portoni sempre spalancati, sotto portici bassi dove il calore arrivava riflesso dai muri e dai ciottoli.
Fece a piedi la strada fino alla caserma Michele Pala, in via Fossalta. Prima di raggiungere il battaglione, a Corticella, come gli comandava l’ordine di trasferimento, voleva salutare il tenente Friggerio. Chissà se lo avrebbe mai più rivisto.
«Vieni, vieni dentro Benedetto» lo accolse Friggerio. Il suo ufficio era in un disordine come Santovito non lo aveva mai visto.
«Vedo che sei occupato» disse Santovito. «Ti lascio lavorare. Solo un saluto, ché non so quando ci rivedremo…»
«Presto, Benedetto, prima di quanto immagini, visto che siamo di nuovo insieme. La tua destinazione è la mia.». Questa Santovito non se la sarebbe aspettata. «Ci vediamo alla scuola allievi ufficiali qualche giorno prima della partenza.»
Santovito non passò a salutare il capitano e non incaricò Friggerio di farlo per lui. Durante il viaggio verso il Don, Friggerio gli disse poi, sottovoce, che nemmeno lui era passato a salutare “quel coglione di fascista imboscato”.
Dal 12 di agosto, il maresciallo Santovito mangiò, dormì, si annoiò, si avvicinò a alcune armi che conosceva solo di nome, nella caserma allievi ufficiali di complemento sita in Bologna, località Corticella, fino al mattino dell’8 ottobre 1942. Usciva soltanto per comprare i sigari e lo faceva contravvenendo agli ordini, perché si era sempre in attesa di partire da un momento all’altro. Un momento che durò poco meno di due mesi. Forse in Russia non c’era così bisogno del XXVI battaglione Carabinieri regi.
Il 18 ottobre l’arrivo a Kupiansk e da quel momento per Santovito, ma anche per molti altri, quasi tutti, cominciò il calvario che percorse assieme al tenente Friggerio. I mesi sulle nevi, la fame, il freddo, i pericoli passati l’uno accanto all’altro, sempre con la prospettiva di non farcela, non li dimenticarono e lasciarono un profondo segno nella loro amicizia.
Li avevano mandati nella pianura del Don per mantenere l’ordine pubblico nelle città conquistate. Non c’erano città conquistate. C’erano solo la guerra e i feriti e i morti e i bombardamenti aerei e gli arti congelati e le decorazioni alla memoria e le promozioni sul campo e la retorica di una Patria che chissà dov’era e che di certo si era dimenticata di loro.
C’erano, invece, e ben presenti a trecento metri da loro, due compagnie dell’esercito russo con armi automatiche e mortai.
Li divideva un terreno pianeggiante, privo di ripari e coperto di neve. Li fasciavano, unendoli nel gelo, trenta gradi sotto zero.
Venti carabinieri, due mitragliatrici Breda 37, un fucile mitragliatore e, duecento metri dietro, il cannone dei tedeschi.
Un carabiniere che “si era arditamente inoltrato in posizione più avanzata e più battuta dal nemico, viene colpito mortalmente alla testa chiudendo, appena diciottenne, la sua esistenza che aveva volontariamente ed interamente dedicato alla Patria” [Dalla Relazione del comandante maggiore Vieri Papa, che si può leggere sul sito Internet www.piervittoriobuffa.it/XXVIbattaglioneccrr ].
L’eroismo c’entrava il giusto in quello che facevano. Un colpo di mortaio che solo per caso non li aveva ammazzati, aveva fatto gridare a uno di loro: «Qui si muore!». Nessuno ricordò mai chi avesse gridato, ma era l’unica verità in quell’inferno di gelo dal quale speravano solo di ritrovare la strada di casa e di riportarci la vita. Il maresciallo Santovito e il tenente Friggerio ce l’avevano fatta, ma su quella strada avevano lasciato un bel po’ di dolore, tanto freddo, feriti e morti.
“Il giorno 13 alle ore 3 […] effettua, per ordine del comando tedesco […] una pattuglia dentro le linee avversarie col preciso compito di bruciare un molino a vento presunto osservatorio nemico.
Durante la marcia di avvicinamento, la pattuglia incontra una postazione di mitragliatrice nemica che distrugge a colpi di bombe a mano, lasciando sul terreno vari morti e alcuni feriti non potuti catturare a causa dell’immediata reazione manifestatasi improvvisamente da altri tre centri di fuoco, poco discosti, che lo hanno costretto a ripiegare, per non subire perdite inutili e portare nel contempo preziose informazioni al comando tedesco che aveva ordinato l’azione.
Il maggiore germanico, comandante del Gruppo granatieri Panzer, che aveva seguito dal suo osservatorio la brillante operazione condotta dal sottufficiale, si è compiaciuto con quest’ultimo, per le rilevanti perdite inflitte al nemico e per le precise informazioni riportate” [ibidem].
C’era chi dei camerati tedeschi aveva un’altra opinione:
“Bestemmio un po’ di tedesco, tanto da farmi capire, tocco i piedi del fante, grido ‘Kaput’.
Uno dei kruki, sbraitando e gesticolando, mi fa intendere che non lo vuole sul camion perché gli italiani gli hanno negato non so cosa. Punta un dito alla tempia, parla di un colpo di pistola.
Urlo che non è un buon soldato: ‘Soldat kamarad ne charosc’.
Un sottufficiale tedesco, che ha assistito alla scena, ordina di lasciarlo salire. E il primo e l’ultimo tedesco a cui stringo la mano: terminerò la ritirata offrendo ad un tedesco una pallottola nel cranio”. [Nuto Revelli, Mai tardi, Einaudi, Torino 2001, p. 118]
19 dicembre 1942: l’Armata Rossa scatenò la prima controffensiva nella valle del Don. Un fronte di ferro e fuoco lungo duecento chilometri diede il via alla disfatta. Trentacinque gradi sottozero, ordini e contrordini, nessun collegamento con i superiori, colpi di artiglieria aravano il terreno della ritirata, morti sotto la neve, morti sopra la neve, morti con dentro la neve, isbe che bruciano in un deserto di ghiaccio…
«Quando siete allo scoperto, quando vi possono vedere da oltre il Don, mettetevi a correre e pregate Dio» raccomandò Santovito agli uomini che gli erano rimasti. Friggerio chissà dov’era. Si erano perduti di vista nella tormenta di neve.
Si corre se si può, maresciallo. Spesso ci si trascina, si rotola sulla neve e attorno il vuoto, la solitudine. A ogni scricchiolio è il terrore, i nervi si sbriciolano come se fossero di ghiaccio. Ci si guarda attorno e si aspetta il colpo alla nuca. Maledetta guerra!
Autocarri abbandonati, autocarri bruciati con dentro dei corpi che la neve conservava, muli con il ventre squarciato da una raffica o da una granata di mortaio. Erano terribilmente precisi i mortai dei russi.
Poi gli scarponi si sfecero. Fatti male e con materiale scadente o il nostro cuoio non sopportava il gelo e si disfaceva, si sfaldava? Gli uni e l’altro, ma loro andarono, andarono lo stesso, i piedi fasciati di stracci.
Camminarono curvi nella tormenta, immersi nel nevischio e con la faccia di ghiaccio. Nella tormenta persero di vista l’amico e non si fermarono per aspettarlo, per cercarlo. Un altro gli cadde accanto e lo lasciarono solo, a morire.
A quaranta sottozero Santovito sperò di morire, ma non fece nulla per aiutare la morte. Se fosse venuta, bene, tutto finito, finalmente. Aveva perduto la voglia di resistere; solo malinconia, stanchezza, disperazione infinita.
Da Gomel a Klinzy, da Klinzy a Gomel, da Gomel a Slobi-Minsk, da Minsk a Baranovic… Poi ancora: Brest, Radom-Rozki, Hodig, Vienna, Villach, Tarvisio, Udine.., e poi, finalmente a Bologna, a Corticella, scuola allievi ufficiali di complemento da dove Santovito era partito, forse un secolo prima. Di sicuro una vita fa. [Itinerario ricavato dal Diario del vice brigadiere Giuseppe Pepiciello, anch’esso disponibile sul sito www.piervittoriobuffa.it/XXVIbattaglioneccrr ]
Come ce l’avesse fatta, il maresciallo Santovito Benedetto non lo capì mai. Eppure, molte volte, dopo, ripensò alla maledetta guerra che gli avevano fatto combattere in Russia. E a quella che aveva combattuto in Italia, sui monti dell’Appennino, dopo il ritorno dal fronte del Don, ma quest’ultima, almeno, per sua scelta.
per gentile concessione di
©2007 Arnoldo Mondadori Editore S.P.A. Milano
Ciao pervittorio. Sono Marco di prizito ancora grazie per questo meraviglioso sito per rendere omaggio ai nostri padri. Un abbraccio. Ho. Fatto leggere il tuo libro “uffialmente dispersi” a mia figlia, inutile dirti che le e’ piaciuto molto.
Conosco personalmente lo scrittore L. Macchiavelli, di cui mi onoro di essere amico. Più superficiale, per non dire unidirezionalmente da parte mia, è la conoscenza che ho di Guccini. Sono due persone meravigliose che scrivono sì inventando, ma sulla base di buoni sentimenti che possiedono. Inoltre hanno un vissuto che, per chi li conosce, traspare nei loro scritti.
Ho tanto piacere che abbiano trovato considerazione tra voi.
ho appena letto il libro e ho sentito la necessità di visitare il sito segnalato anche perchè a pag 12 era evidente un errore gli ufficiali non potevano essere 121 e ho visto sul sito che erano in effetti 12!
livioandrea.bari@email.it
Grazie. Pier Vittorio Buffa