Testimonianza del carabiniere ausiliario Giovanni Battista Invernizzi
Porta arma tiratore, 3^ squadra, 2° plotone, 2^ compagnia
Giovanni Battista Invernizzi era un carabiniere ausiliario del secondo plotone della seconda compagnia. Prima di diventare carabiniere era entrato, giovanissimo (è del 1920), negli alpini: con il battaglione Tirano della Tridentina partecipò alla campagna di Grecia. Fu proprio il suo passato ad assegnarli il ruolo che avrebbe ricoperto in Russia con il XXVI battaglione. Erano ancora a Bologna quando si accorse che i suoi nuovi commilitoni avevano poca dimestichezza con le armi pesanti. Il comandante del suo plotone, Giovanni Buffa, gli chiese se sapeva montare e usare il fucile mitragliatore. Lui disse di sì, lo dimostrò e divenne il porta arma della squadra. Finita la guerra si è congedato per poi tornare dopo poco nei carabinieri nei quali è rimasto fino al 1968. L’ultima sua destinazione, con il grado di maresciallo capo, è stata la compagnia di Castelmassa, cittadina in provincia di Rovigo nella quale ha vissuto gli ultimi anni della sua vita. Dei mesi passati in Russia con il XXVI battaglione non ha né foto né diari («Avevo cominciato a scriverlo, ma lo buttai via perché era più utile portare nello zaino viveri o munizioni»), ma ricordi vividi di fatti ed episodi. La sua testimonianza è stata raccolta il 10 e 11 gennaio 2004 a Castelmassa (RO). Il maresciallo Invernizzi è morto il 4 aprile 2007
«Ho visto montagne di cadaveri e sentito un freddo che non so descrivere: a me, la vita, l’ha salvata il mio tenente. Ci stavamo ritirando e mi venne la febbre altissima. Se avessi continuato sarei morto. Invece Buffa si fermò, mi pare a Starobelsk, si fece aiutare da un russo che stava con noi e ci faceva da interprete, trovò una casa dove una donna mi curò finché potei tornare con gli altri e andare avanti.
«Il primo della mia squadra a morire è stato Cavaglieri, Armando Cavaglieri, il più giovane di tutti noi, aveva diciotto anni. Era la metà di gennaio ed eravamo a Bondarowka. Da dietro un’isba sbucò improvviso un russo che sparò a Cavaglieri. Il mio caposquadra, il vicebrigadiere Pepiciello, mi urlò: spara, spara. Io con il mitragliatore mirai al russo che era proprio sull’angolo dell’isba, feci fuoco e i proiettili dell’arma sbrecciarono lo spigolo di legno della casa uccidendo il russo. Poi andai vicino a Cavaglieri: era ancora vivo, con la mano grattava sulla neve… L’ho seppellito io, l’abbiamo avvolto in una tela da sacco, forse è ancora lì, a Bondarowka, perché non lo potemmo seppellire in uno di quei cimiteri che poi hanno trovato.
«Due giorni dopo eravamo tutti dentro una casa, sempre a Bondarowka, quando fu dato l’allarme. Uscii con Pepiciello e Bellini. Vedemmo un cavallo che veniva verso di noi, un bel cavallo, in salute, muscoloso. Tirava una slitta piena di russi. Mi misi in posizione di sparo, feci fuoco mentre Bellini, che era accanto a me, mi raccomandava di non colpire il cavallo. Uccidemmo due russi, due ufficiali, un terzo scappò, a piedi, io l’ho inseguito in mezzo alle case, l’ho colpito. Ai morti togliemmo il piastrino, non ce l’avevano come noi, era un rotolino di carta infilato in una minuscola tasca sul davanti dei pantaloni.
«Prendemmo il cavallo e la slitta e siccome il giorno dopo cominciò la nostra ritirata ci furono molto utili. Abbiamo caricato tutto il possibile sulla slitta: i viveri, le munizioni, gli zaini. E noi a piedi perché i camion e le motociclette li avevamo dovuti abbandonare e bruciare, non c’era più benzina. Avevamo perso contatto con il comandante del nostro plotone così abbiamo iniziato la marcia verso ovest insieme ai tedeschi. Dopo un paio di giorni, mi pare a Starobelsk, ma non sono sicuro, ci riuniamo con altri carabinieri. C’è l’altra squadra del nostro plotone con il tenente. Il maggiore mi dicono che è avanti, con un camion, lo abbiamo rivisto solo a Karkow, verso la fine del mese di gennaio.
«Per sei o sette giorni camminammo nella neve, quanti morti, che freddo, che fame. Io mi ero sistemato i pezzi del mitragliatore sulle spalle, fermati con uno spago, perché mi dessero meno fastidio possibile. Non volevo abbandonarlo nella neve perché temevo che poi me lo avrebbero addebitato. Scarpe non ne avevo più perché i piedi si erano congelati e li avevo avvolti in con stracci e coperte, camminavo a fatica. A un certo punto ci superò un camion tedesco, dietro c’erano seduti due mongoli e io mi accorsi che c’era altro spazio nel cassone. Feci cenno di fermarsi, di farmi salire, dissero no con la testa. Allora presi una bomba a mano e feci, con la bocca, il gesto che si fa per togliere la sicura prima di lanciarla. Uno dei due mongoli bussò subito alla cabina di guida, l’autista si fermò e io riuscii a salire. Forse anche questa piccola minaccia mi ha salvato la vita.
«Dei russi, comunque, ho un buon ricordo, era brava gente, veniva alle nostre messe, le donne ci davano da mangiare e da dormire. Una volta difesi un bambino: un tedesco gli stava facendo del male, mi pare lo stesse per picchiare, o peggio, non so per quale motivo. Il tenente mi disse di fermarlo, di sparare: lo ferii di striscio a una gamba.
«Poi c’è un episodio che allora non raccontai a nessuno.
«Ero di pattuglia insieme ad altri carabinieri, quattro o cinque in tutto, quando incontriamo una pattuglia di russi. Non so come ci riusciamo, ma non ci siamo sparati. Loro hanno urlato per primi, non sparate, non sparate e noi siamo rimasti fermi. Ci siamo seduti insieme, ci siamo messi a parlare, uno di loro conosceva un po’ l’italiano, noi un po’ di russo. Gli abbiamo offerto la grappa e hanno voluto vedere i nostri moschetti: ci hanno preso in giro per quanto poco valevano. Loro avevano dei fucili bellissimi, con un caricatore da dodici colpi, altro che i nostri 91. Forse fu la paura di morire a non farci premere i grilletti. Perché in guerra si ha sempre paura. Ogni minuto, ogni ora, ogni giorno. Chi dice il contrario è un bugiardo».
Il carabiniere Invernizzi Giovanni Battista venne proposto dal comandante del suo plotone per la medaglia di bronzo al valor militare con la seguente motivazione:
“Porta arma tiratore, più volte volontario in rischiose operazioni, durante un violento attacco nemico con cosciente calma dirigeva il preciso fuoco della sua arma mantenendosi a lungo in posizione intensamente battuta da fuoco di mortai e di armi automatiche. Rifiutava più volte il cambio che gli veniva offerto contribuendo notevolmente col suo valoroso comportamento al momento di difficile posizione destando vivo senso di ammirazione e di plauso da parte dei compagni e del reparto alleato col quale collaborava. Magnifico esempio di cosciente ardimento, sprezzo del pericolo ed alto senso del dovere”.