Bill Keller è stato per anni direttore del New York Times e ne è adesso editorialista.
Il suo ultimo articolo, tradotto e pubblicato da Repubblica, si intitola “How to die”, Come morire, e racconta la morte di suo suocero, Anthony Gilbey.
Racconta Keller: “Un mese fa, risvegliatosi dall’anestesia in un ospedale inglese mio suocero trova al capezzale la figlia e un medico di turno. L’intervento non è riuscito lo informa il dottore. Non c’è niente da fare. ‘Sto morendo?’, chiede. “Si”, tentenna il medico. ‘Papà stai morendo’, conferma la figlia. ‘Allora niente più bisboccia’. ‘Ne faremo eccome’ gli promette lei”.
Keller spiega che l’ospedale smette di curare il suocero, stacca tubi e macchine, lo trasferiscono in una camera silenziosa e Anthony Gilbey muore “umanamente: amato, dignitoso, pronto”.
E’ l’applicazione del protocollo Liverpool Care Pathway, un “percorso di assistenza concepito negli anni Novanta a Liverpool in un istituto di cura per tumori come alternativa più umana all’accanimento terapeutico praticato su pazienti ormai prossimi alla morte”.
Racconta ancora Keller: ” ‘Ho combattuto la morte tanto a lungo’ aveva detto Anthony Gilbey a sua figlia, a mia moglie, verso la fine. ‘E’ un tale sollievo potersi lasciare andare’”.
Conclude Keller: ”Sarebbe bello se tutti potessimo morire come lui”.
Un’affermazione che sottoscrivo.