Ho letto e riletto il volantino con cui gli anarchici del FAI-FRI hanno rivendicato il ferimento di Roberto Adinolfi. Vi cercavo punti di contatto con quelli che, tanti fa, che arrivavano puntuali dopo ogni attentato delle Brigate Rosse. Tutto diverso. Linguaggio, obiettivi apparenti, costruzione del ragionamento, argomentazioni. Stavo per concludere che nulla, se non un proiettile, unisce oggi a ieri, quando mi è tornato in mente un racconto di Alberto Franceschini, uno dei capi storici delle Brigate rosse.
Mi raccontava (era la fine degli anni Ottanta e lui era ancora in carcere a Rebibbia) delle navi bruciate alle spalle: un momento cruciale del suo diventare brigatista e, probabilmente, uno di quelli che ricordava con maggiore intensità. “Un rito”, ho sintetizzato nella sua biografia, Mara , Renato e io, “che nasceva dalla lettura delle opere di Guevara. Il Che raccontava l’ultima offensiva di Simon Bolivar contro i colonialisti: arrivò con le navi e diede ordine di bruciarle, rendendo così impossibile ogni ritirata. Il suo motto, dopo quell’ordine, divenne “O vittoria o morte”. E noli, senza dirci niente, lo facemmo nostro. Ogni nuovo compagno, per diventare un “regolare” doveva bruciare i propri documenti davanti agli altri, pubblicamente… in quel momento si bruciavano le navi alle proprie spalle, si chiudeva la via della ritirata… Quando bruciai la carta d’identità mi sentii un uomo libero… Con quel piccolo falò avevo preso in mano la mia vita”.
Ho letto nuovamente le parole degli anarchici e ho trovato uno spirito simile. Anche loro hanno bruciato le loro navi e anche loro provano quella sensazione di libertà improvvisa. L’attimo è quello che in cui sparano il primo proiettile contro Roberto Adinolfi. E’ il loro falò.
Scrivono: “Siamo dei folli amanti della libertà e mai rinunceremo alla rivoluzione… Vincere la paura è stato più semplice di quello che ci eravamo immaginati. Realizzare oggi quello che solo fino a ieri ci sembrava impossibile è l’unica soluzione… per abbattere il muro dell’oppressione quotidiana”. E prima, a sottolineare il valore simbolico del primo proiettile l’agghiacciante “impugnare una pistola, scegliere e seguire l’obiettivo, coordinare mente e mano sono stati un passaggio obbligato… il rischio di una scelta e … un confluire di sensazioni piacevoli… quella che adesso cerchiamo è complicità“.
All’inizio degli anni Settanta molti, troppi, sottovalutarono quei ragazzi che bruciavano macchine e rapivano dirigenti per poche ore. E quasi nessuno capì che erano destinati a raccogliere complici a decine e centinaia.
Chi ha sparato ad Adinolfi l’ha fatta più semplice, ha dichiarato esplicitamente di cercare complici. Quello che questa volta dovremmo capire per tempo è che, oggi come allora, non è solo un problema di polizia. E’ anche il sintomo di una malattia sociale che rischia di attecchire e che va guarita per tempo. Altrimenti i complici si moltiplicheranno e potremmo trovarci a vivere un’altra stagione di sangue.