Etiopia. Un paese che conosco e nel quale qualche anno fa mi sono immerso. Difficile, duro, povero, poverissimo. La sua capitale, Addis Abeba, è la Bruxelles d'Africa, è la capitale dell'Unione africana. La sua storia è piena di sangue e sofferenze, molte inferte anche dagli italiani. Le sue chiese protocristiane sembrano un ponte tra civiltà.
Oggi, nel silenzio, l'Etiopia sta precipitando in una sanguinosa guerra civile. Nascondersi dietro un facile "è un paese che non conosco, cose complesse da capire" è inutile. Per alzare l'attenzione basta sapere che ci sono centinaia di morti, che la gente viene arrestata per le sue idee, per la sua appartenenza etnica, perché è giornalista, perché ha un blog. Che un atleta (Feyisa Lilesa, secondo nella maratona), dopo aver fatto il gesto delle manette alle Olimpiadi, ha dovuto chiedere asilo politico per non rischiare la vita tornando a casa. Che l'Etiopia sta per sedere nel Consiglio di sicurezza dell'Onu per due anni. E che ai primi del mese, quando era in visita di Stato in Italia, il presidente etiope ha risposto a Mattarella, che esprimeva il suo cordoglio, che la colpa dell'ultima strage era "dell'azione di alcuni facinorosi".
Alzando l'attenzione si può contribuire a rompere il silenzio planetario che avvolge le sofferenze di una popolazione. E chiedere che la ragione di Stato non prevalga sulla tutela dei diritti umani.
Per saperne di più:
Il rapporto di Amnesty International