“Gli occhi dell’uomo che ha sparato alla mia mamma non li ho potuti vedere. Aveva la divisa da tedesco e la faccia coperta da una di quelle retine che fanno sembrare mascherati, che servono per non farsi riconoscere. Se ne stava appoggiato a un palo, senza parlare, era l’unico a stare zitto, non aveva parlato neanche qualche minuto prima quando mi aveva spinta a calci fino qui, al muro, dove ci hanno messo tutti quanti. Non ha parlato perché non poteva, l’avremmo riconosciuto tutti. Era italiano, ne sono sicura. Siamo in ventotto davanti al muro, la conta non l’ho fatta io ma quelli che poi hanno portato via i cadaveri. Io sono accanto alla mia mamma che ha in braccio la piccolina, nata venti giorni prima, a destra c’è la mia sorella di sedici anni, davanti a me le altre due, di dieci e di quattro anni. A un passo da noi la Maria, con il figlio di quattordici mesi, malato, tanto malato. È lei a parlare con l’uomo mascherato, gli chiede di avere pietà del bimbo, è malato. Quell’uomo, ma mi fa ancora fatica chiamarlo uomo, tira fuori la pistola dalla fondina e iniziano i colpi. Forti, assordanti. Il mio ricordo è confuso e preciso allo stesso tempo…
La mia mamma grida: “Salvatevi, salvatevi se potete”. Lo grida proprio un attimo prima di cadermi addosso insieme alla piccolina. Ho la mamma sul petto e il suo peso mi fa cadere all’indietro. È tutto rumore intorno a noi, un rumore che non mi fa pensare. La mitragliatrice l’avevo vista mentre i tedeschi la piazzavano più in là, ma non ho tempo di capire se ci uccidono con quella, lo capirò poi che, dopo la pistola del mascherato, è stata la mitragliatrice a spararci addosso. Cado indietro ma non c’è il muro a fermarmi, la porta della stalla davanti alla quale ci avevano messe non è chiusa, si apre spinta dal mio peso, mi lascio cadere all’indietro e trascino con me le mie tre sorelle. Rotoliamo nella stalla e restiamo ferme ferme. La porta si richiude da sola, ruotando sui car-dini, e il rumore continua, stringo a me le tre sorelle, non sento dolore alla gamba ma solo al braccio, trapassato dalle pallottole. Non vedo il sangue sui loro corpi.
Il silenzio arriva lento, preceduto da qualche colpo singolo, sonoro come un colpo di frusta. Poi più nulla…
Vedo il sangue di mia sorella Maria, la più grande, quella con la quale devo decidere cosa fare… Decidiamo di uscire dalla stalla.
Apro la porta e qui, proprio qui, per terra, c’è la mia mamma con la sorellina appena nata, ha venti giorni l’Annina. Solo in quel momento, quando abbasso lo sguardo verso di lei, mi accorgo di cosa ho sul petto. Ho il sangue della mia mamma e del bianco, il bianco del suo cervello. Gli aveva sparato alla testa quel mascherato, l’italiano, gliel’ha spaccata, ma la mamma ci ha fatto il suo ultimo dono. Cadendomi addosso ha salvato le sue quattro figlie, le ha fatte cadere nella stalla”.
(da Pier Vittorio Buffa, Io ho visto, Nutrimenti, 2013)
(nella foto Cesira Pardini e la lapide che ricorda sua sorella Anna, uccisa a venti giorni)